
La CASA della VECCHIA ZIA
Come immaginiamo, come presentiamo la Casa del Padre?
Il modello, sovente, è dato da certe case antiche, aristocratiche. Dentro, tutta roba di classe. Mobilio artistico. Tappeti persiani. Vasellame cinese. Quadri d'autore. Ritratti (tanti, troppi), cimeli, medaglie di antenati. Museo. Archivio. Vi si conservano, gelosamente, le glorie del passato.
In certe stanze è vietato rigorosamente l'ingresso. Da un'altra parte non si può andare perché è stata data la cera sul pavimento. Finestre chiuse. Imposte chiuse. Perché il sole potrebbe rovinare i delicati tendaggi. Aria che sa di muffa, di chiuso, di antichità. Non si respira. Pare di soffocare. Cartelli da tutte le parti: non toccare, non entrare, proibito far questo, vietato far quell'altro, attenti alle scarpe sporche... Guai ad alzare la voce, a cantare. C'è la vecchia zia, acida, bisbetica, che soffre di nervi... E detesta la musica moderna. Adora Bach. I discorsi, noiosissimi. Sempre le stesse cose. La stessa solfa. Ripetizione delle glorie del passato e recriminazioni sul presente: «Dove andiamo a finire? Ai miei tempi...». Soprattutto: atteggiamento di superiorità e di disprezzo per quelli che sono fuori, che non godono dei nostri privilegi, che non hanno il nostro sangue nelle vene, che non possono vantare il nostro blasone, una razza inferiore... Guai se i figli del vicino mettono i piedi in questa casa. Potrebbero sporcare, potrebbero turbarne l'ordine rigorosamente stabilito.
Non abbiamo un po' la tentazione a ridurla così la Casa del Padre? Una Casa di privilegiati, una specie di Museo, di archivio. Tutto in ordine. Tutto già predisposto. Soprattutto, nessuna novità. Si è sempre fatto così. Milioni di proibizioni. Un cerimoniale esatto da osservare. Tutto rigidamente stabilito. Manca l'atmosfera che dia la gioia di viverci.
Invece dovrebbe essere una Casa dalle finestre e dalle porte spalancate. Senza visi arcigni a custodirla. Una Casa in cui tutti dovrebbero trovarsi a loro agio. Nessuno sentirsi impacciato. Poter ridere, scherzare e... fare capriole. In cui non dico sia lecito disegnare i baffi al ritratto dell'antenato che ha partecipato alla battaglia di Lepanto, ma perlomeno è possibile appendere quadri nuovi, con personaggi di attualità. In cui si ha il coraggio di mettere in soffitta le suppellettili che non servono più. In cui la storia la scriviamo anche noi. In cui la vecchia zia, acida, bisbetica, che soffre di nervi, con le sue manie, le sue crisi, le sue fissazioni, non condiziona la vita di tutti, non blocca la vita degli altri. Le vogliamo tutti bene a questa vecchia zia. La curiamo, se ha bisogno. Ma ci lasci vivere. Ci lasci lavorare. Ci lasci respirare. Non ci tolga la gioia di vivere. E se strilla, lasciamola strillare. Non le metteremo certo le puntine da disegno sulla poltrona preferita e nemmeno la fotografia della cantante alla moda nel suo libro di devozioni, ma non asseconderemo più le sue paturnie. E se grida: «Dove andiamo a finire?», grideremo più forte: «Avanti!».
La Casa non dobbiamo immaginarla come il capolavoro di un architetto raffinato. Dev'essere il capolavoro dei figli. Dev'essere una casa di famiglia dove «c'è sempre un po' di disordine, le sedie talvolta mancano di un piede, i tavoli sono macchiati d'inchiostro e le scatole di marmellata si vuotano da sole nella dispensa» (Bernanos).
In questa Casa il centro è il cuore del Padre. E i mattoni, le pietre vive siamo noi. Noi siamo responsabili dell'atmosfera, dell'aria che vi si respira. Possiamo farne un capolavoro. O un inferno.
Di fronte al Cristo della Trasfigurazione, Pietro ha esclamato: «È bene stare qui». Ogni fratello, nella Casa, deve poter ripetere lo, stesso grido: «È bene, è bello stare qui». Nella Casa, sulla terra, ci si acclimata al Paradiso. Non al Purgatorio. Né, tantomeno, all'Inferno. La Casa deve essere «la prova generale» del Paradiso.
Come immaginiamo, come presentiamo la Casa del Padre?
Il modello, sovente, è dato da certe case antiche, aristocratiche. Dentro, tutta roba di classe. Mobilio artistico. Tappeti persiani. Vasellame cinese. Quadri d'autore. Ritratti (tanti, troppi), cimeli, medaglie di antenati. Museo. Archivio. Vi si conservano, gelosamente, le glorie del passato.
In certe stanze è vietato rigorosamente l'ingresso. Da un'altra parte non si può andare perché è stata data la cera sul pavimento. Finestre chiuse. Imposte chiuse. Perché il sole potrebbe rovinare i delicati tendaggi. Aria che sa di muffa, di chiuso, di antichità. Non si respira. Pare di soffocare. Cartelli da tutte le parti: non toccare, non entrare, proibito far questo, vietato far quell'altro, attenti alle scarpe sporche... Guai ad alzare la voce, a cantare. C'è la vecchia zia, acida, bisbetica, che soffre di nervi... E detesta la musica moderna. Adora Bach. I discorsi, noiosissimi. Sempre le stesse cose. La stessa solfa. Ripetizione delle glorie del passato e recriminazioni sul presente: «Dove andiamo a finire? Ai miei tempi...». Soprattutto: atteggiamento di superiorità e di disprezzo per quelli che sono fuori, che non godono dei nostri privilegi, che non hanno il nostro sangue nelle vene, che non possono vantare il nostro blasone, una razza inferiore... Guai se i figli del vicino mettono i piedi in questa casa. Potrebbero sporcare, potrebbero turbarne l'ordine rigorosamente stabilito.
Non abbiamo un po' la tentazione a ridurla così la Casa del Padre? Una Casa di privilegiati, una specie di Museo, di archivio. Tutto in ordine. Tutto già predisposto. Soprattutto, nessuna novità. Si è sempre fatto così. Milioni di proibizioni. Un cerimoniale esatto da osservare. Tutto rigidamente stabilito. Manca l'atmosfera che dia la gioia di viverci.
Invece dovrebbe essere una Casa dalle finestre e dalle porte spalancate. Senza visi arcigni a custodirla. Una Casa in cui tutti dovrebbero trovarsi a loro agio. Nessuno sentirsi impacciato. Poter ridere, scherzare e... fare capriole. In cui non dico sia lecito disegnare i baffi al ritratto dell'antenato che ha partecipato alla battaglia di Lepanto, ma perlomeno è possibile appendere quadri nuovi, con personaggi di attualità. In cui si ha il coraggio di mettere in soffitta le suppellettili che non servono più. In cui la storia la scriviamo anche noi. In cui la vecchia zia, acida, bisbetica, che soffre di nervi, con le sue manie, le sue crisi, le sue fissazioni, non condiziona la vita di tutti, non blocca la vita degli altri. Le vogliamo tutti bene a questa vecchia zia. La curiamo, se ha bisogno. Ma ci lasci vivere. Ci lasci lavorare. Ci lasci respirare. Non ci tolga la gioia di vivere. E se strilla, lasciamola strillare. Non le metteremo certo le puntine da disegno sulla poltrona preferita e nemmeno la fotografia della cantante alla moda nel suo libro di devozioni, ma non asseconderemo più le sue paturnie. E se grida: «Dove andiamo a finire?», grideremo più forte: «Avanti!».
La Casa non dobbiamo immaginarla come il capolavoro di un architetto raffinato. Dev'essere il capolavoro dei figli. Dev'essere una casa di famiglia dove «c'è sempre un po' di disordine, le sedie talvolta mancano di un piede, i tavoli sono macchiati d'inchiostro e le scatole di marmellata si vuotano da sole nella dispensa» (Bernanos).
In questa Casa il centro è il cuore del Padre. E i mattoni, le pietre vive siamo noi. Noi siamo responsabili dell'atmosfera, dell'aria che vi si respira. Possiamo farne un capolavoro. O un inferno.
Di fronte al Cristo della Trasfigurazione, Pietro ha esclamato: «È bene stare qui». Ogni fratello, nella Casa, deve poter ripetere lo, stesso grido: «È bene, è bello stare qui». Nella Casa, sulla terra, ci si acclimata al Paradiso. Non al Purgatorio. Né, tantomeno, all'Inferno. La Casa deve essere «la prova generale» del Paradiso.
Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 302-305
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