venerdì 22 maggio 2009

Anniversario


Un anno fa, il 21 maggio, moriva mons. Luca Milesi.
Lo vogliamo ricordare
con una rassegna di foto
e con uno dei testi con cui i fedeli eritrei hanno inteso far memoria
dei suoi ultimi giorni e delle celebrazioni in suo onore.

Sua Eccellenza il Vescovo Luca Milesi di anni 84, che era un prete cappuccino, fondatore degli Istituti Secolari e primo Vescovo della Diocesi di Barentu, è morto mercoledì 21 maggio 2008 alle I0.00 della sera. Il suo funerale ebbe luogo il martedì 27 maggio 2008 nella cattedrale di Santa Croce nella città di Barentu.
Sua Eccellenza il Vescovo Luca Milesi continuando le consuete attività giornaliere, circa alle 9.30 del mattino del 20 maggio, aveva lasciato Asmara per Dekemhare e aveva pranzato con le sorelle della comunità dell’Eucarestia. Dopo il pranzo mentre stava chiacchierando e ridendo con le sue amatissime giovani postulanti della comunità, sentì un acuto dolore che non aveva mai sperimentato prima. Subito andò in bagno e vi rimase qualche tempo; le ragazze erano molto preoccupate per il suo attardarsi e quando bussarono alla porta non ci fu risposta, questo è il momento nel quale lo trovarono molto affranto per un grande dolore.
Subito dopo lui fu portato all’Asmara.
All’incirca verso le 7.00 della sera fu accolto nell’ospedale Sembele. Poi con l’aiuto dei dottori, e noi crediamo con l’aiuto della preghiere, si è ripreso rapidamente.
I suoi ragazzi, membri degli Istituti Secolari, furono molto felici quando ricominciò a scherzare e chiacchierare con loro ancora una volta.
Effettivamente, essi e lui stesso pensarono che questa era la fine del suo male.
Sfortunatamente, il giorno dopo intorno alle sei del pomeriggio il dolore ricominciò di nuovo.
E’ stata questa la volta che Sua Eccellenza disse: “ora la morte è venuta”.
I dottori e le infermiere fecero del loro meglio per salvargli la vita.
Egli ricevette gli ultimi sacramenti da Sua Eccellenza il Vescovo Mengistaab Tesfamariam della Diocesi di Asmara e dopo di lui il Vescovo Emerito Zekarias Yohans.
In breve entrò in coma. Alle dieci della sera se ne andò in pace, mentre era circondato da tutti quelli che lo amano, pregando e piangendo. Possa la sua anima riposare nella pace eterna!
A mezzanotte il suo corpo venerato fu portato all’ospedale Oarota National Referral per essere custodito fino a che fossero completati i preparativi per il funerale.
Aspettando il giorno del funerale... (prosegui la lettura tra i Testi)

Svezzamento

C'è mamma al telefono
di Massimo Gramellini
Non stupisce che una mamma sia stata condannata a 360 euro di multa per «stalking», dopo che per due anni e mezzo aveva perseguitato il figlio con una media di 49 telefonate al giorno. Non stupisce che l’amore di una mamma travolga qualsiasi bolletta e trovi nuove opportunità espressive nel progresso tecnologico: il telefonino, per esempio, che le consente di tenere sotto controllo il pupo a intervalli regolari (ogni quarto d’ora, calcolando che lo chiamasse anche durante il sonno). Non stupisce nemmeno che la mamma in questione abbia 73 anni e suo figlio intorno ai 40. Le mamme non vanno mai in pensione.
E a 40 anni i figli hanno appena superato il periodo dello svezzamento per accingersi a muovere i primi e incerti passi verso l’adolescenza: periodo affascinante ma irto di pericoli, che solo una mamma con la testa sul collo e la cornetta all’orecchio è in grado di sventare. Ecco, semmai stupisce che sia stato lui, il figlio, a denunciarla. Ma sicuramente dietro quella decisione ingenerosa si nasconderà la mano di una nuora intirizzita dalla gelosia. In realtà l’unico particolare che stupisce, in questa storia, è la nazionalità della mamma. Austriaca. Ma forse c’è una spiegazione anche qui: le mamme italiane, avendo i figli di 40 anni ancora in casa, non hanno alcun bisogno di perseguitarli sul telefonino.

giovedì 21 maggio 2009

Il modo di presentare gli ideali

Il confronto con lo sport non è forse più calzante per l'oggi,
ma la passione, l'istanza e la profezia ci sono tutte!

«Senta, signor parroco. Constatiamo prima di tutto un fatto. La nostra gioventù non ha perduto l’interesse né la passione verso le cose belle, benché tali inclinazioni si dispongano al momento verso obiettivi che noi non consideriamo meritevoli di passione.
Perché ciò che noi si stima degno non scalfisce punto la fresca anima giovanile?
Segno qui tre spiegazioni a titolo di ipotesi. O i giovani di oggi sono così diversi da noi e così guasti che non avvertono più il sapore dello spirituale; o gli ideali che noi presentiamo sono finiti; o noi presentiamo questi ideali in modo che non interessano.
Escludo la prima ipotesi senza discuterla. I nostri figliuoli sono come noi. Sentono vivamente i richiami del corpo, ma non sono insensibili alla vita dello spirito. Ogni generazione ha una propria fisionomia, la quale però si staglia da uno sfondo di umanità, che rimane perenne e immutabile. Ogni generazione ha pure un proprio fascino o sogno o innamoramento, giudicato sempre follia dall’età precedente. Senza volerla confessare, esiste una gelosa rivalità fra la generazione che sale e quella che tramonta. Essa si sfoga in reciproche incomprensioni, in reciproci rimproveri, ai quali non bisogna dare molto peso.
La seconda ipotesi l’ho messa fuori per scrupolo di sincerità, per rispondere a un momento di tentazione, che può sorprendere anche il più solido dei credenti, senza scuoterlo. L’irriflessione è un fenomeno di superficialità. Gli spiriti profondi riescono a vivere con passione anche i momenti difficili e a cavarne beneficio.
Il problema riguarda il modo di presentare l’ideale, e lo sport è la protesta quasi inconsapevole dei giovani contro chi, possedendo tesori, non li sa far amare.
Perché la gioventù si appassiona unicamente dello sport?
«È un divertimento - lei mi risponde - e i divertimenti attraggono facilmente».
Glielo concedo; ma sotto il divertimento i nostri giovani, inconsapevolmente forse, amano qualcos’altro. Lo sport è un’evasione dalla durezza della vita attuale, per avvicinarsi in qualche modo a soddisfare quel bisogno istintivo di libertà, che non esclude la disciplina.
Ogni imposizione suscita ribellione. In certi tempi essa è sfrontatezza, devastazione, persecuzione; in altri, come ora, indifferenza o passività. Il giovane evade oggi dai nostri metodi più che dalle nostre realtà, le quali non lo interessano nel modo con cui soltanto egli vorrebbe e potrebbe essere interessato.
Se don Bosco tornasse, attraverso lo sport c’insegnerebbe la strada per arrivare ai giovani. Il che non vuol dire fare dello sport, ma cogliere i bisogni eterni dello spirito attraverso le espressioni mutevoli di esso.
Non si è ancora accorto, signor parroco, che lo sport è l’unica evasione dal grigiore e dall’uniformità schiacciante dell’epoca?
L’arte è sotto un’irruzione barbarica, che avrà forse in un tempo lontano la sua libera e piena espressione; il lavoro, quando c’è, è tecnica e incontra dappertutto la macchina, cioè una barriera, sia pure una barriera d’intelligenza concentrata; la politica è di pochi; la religione è senza fervore.
Soltanto nel mondo dello sport la fantasia e la potenza creatrice del giovane si sbizzarriscono a piacimento, creando e distruggendo i propri idoli con volubilità prepotente. Egli è attore anche quando è spettatore: folla, giudice, arbitro, ribelle... Lo stadio è il nuovo parlamento; e lo sport la nuova liturgia di una religione che sembra rinnegare ogni religione, perché nessuna viene offerta come respiro dell’anima.
Chi ha cura d’anime e preoccupazioni educative dovrebbe riconoscere che tra le varie attività quella sportiva è l’unica forse che lascia all’individuo, anche al più modesto e insignificante, l’illusione di una maggiore libertà personale.
Essa non è soltanto il passatempo o il diversivo dei disoccupati dello spirito o delle superiori attività della vita; è la sostituzione di una sciocchezza, ma di una sciocchezza - se lei così vuole chiamarla - propria, personale; è la caserma, l’uniformità, il grigiore che cedono davanti a una fiammata, in cui io, chiunque, anche il più stupido, ha un sentimento, un’opinione, un’approvazione.
Lei capisce bene, signor parroco; scrivendole così, non voglio dire che approvo ciò che constato e non posso non constatare. Questa non è la verità che i cattolici devono predicare. Ma la verità, nell’ordine morale, non dipende unicamente dai princìpi, ma anche dalle situazioni particolari, alle quali essi si debbono applicare. Anche i fatti sono verità, dolorose verità, delle quali bisogna tenere conto se si vuole agire sugli uomini.
La storia è piena di idee false che, presentate con forza, hanno prodotto formidabili realtà in eguale misura, se non di più delle idee vere.
L’errore, dal momento che si impone, diviene un fatto, come la verità, e anche più di una verità che non riesce a farsi ascoltare.
Io credo che nessuno sia dispensato dal guardare in faccia simili realtà che non si distruggono, né con deplorazioni né con condanne».
don Primo Mazzolari, Lettere al mio Parroco, 85-88.
Gli originali sono degli anni ‘30.

Erri De Luca sui migranti

Per cominciare la giornata in bellezza

mercoledì 20 maggio 2009

Sempre a proposito

Parlare di tutto
per non parlare di nulla.
Cfr "Il Gattopardo"

A proposito: sulla governance

L'inglese dei furbi
di Massimo Gramellini
Ieri telefona un tipo e con la voce gorgogliante di uno che si è appena inghiottito la boccetta del dopobarba dice: «Salve, mi occupo di fund raising per alcuni importanti social events». «Complimenti», rispondo. E intanto prendo tempo, cercando di sondarlo con domande laterali. Alla fine capisco che si tratta di un disperato che chiede denaro per finanziare iniziative di beneficenza in tempi di crisi. Però, vuoi mettere: fund raiser. Ha un suono da Guerre Stellari, benché significhi «procacciatore di grano». Solo dei maestri di ipocrisia potevano riuscire a trasformare la lingua più diretta del mondo in un ennesimo travestimento. E noi, modestamente, siamo quei maestri. Un’altra espressione anglo-furba è peace-keeping. Letteralmente vuol dire «tenere la pace», ma in realtà la si adopera per fare la guerra. Anche gli americani la usano, sia pure con più prudenza e imbarazzo. I nostri invece ne parlano in tono giulivo, come se peace-keeppare fosse un’attività ginnica da consigliare a chiunque sia un po’ sovrappeso.
Ma là dove il nostro stravolgimento dell’inglese raggiunge vette di puro e surreale sadismo è nella parola «governance». Appena vedete qualcuno assumere un tono grave e affermare: «In questa azienda esiste un problema di governance», toccatevi la sedia sotto il sedere perché è iniziata l’opera di falegnameria. Segare la poltrona di un altro prima che lui la seghi a te: questa è governance. Ma se nei proverbi degli avi comandare era meglio che fare sesso, esercitare la governance mi sembra un formidabile antidoto al viagra.

Assemblea sinodale del clero: cvd

Assemblea sinodale del clero

«Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato.
Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi».
1 Lettera di Giovanni, 1,5-10

martedì 19 maggio 2009

A proposito di "stranieri"

Pietro allora prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Atti degli apostoli 10,34-35

Anniversario


Dieci anni fa, alla PUG di Roma, discutevo la tesi di dottorato.

Ecco le parole di ringraziamento con cui concludevo la presentazione.

Rispettoso della dinamica simbolica che ho creduto di rintracciare negli Autori che mi hanno guidato in questa ricerca, mosso dallo Spirito vorrei concludere con un’operazione squisitamente simbolica, del simbolismo realista di cui Solov’ëv mi è stato maestro.
Vedo mia mamma, mio papà, mio fratello e mia sorella, insieme agli altri miei parenti e benedico il Padre che ha voluto il sacramento del matrimonio e che ci ha donato di essere famiglia cristiana, a cui sono aperti futuri di bene.
Vedo p. Rupnik e benedico il Padre per avermi fatto accostare un modo profondo ed entusiasmante di contemplare la realtà creata, in un intreccio per me ormai indispensabile di teologia, antropologia, relazioni e carità.
Vedo p. Rosato e p. Brodeur e benedico il Padre che mi ha fatto incontrare col mondo stimolante della PUG, e per l’impressione enorme che suscita in me l’incontro con tanti professori e con gli immensi scaffali della Biblioteca.
Vedo don Diego e don Sandro e benedico il Padre che mi ha fatto trovare un tetto e un letto (nonché un tavolo e un campo da calcetto!) dove vivere i cinque anni romani.
Vedo don Gianfranco e don Franco Giulio e benedico il Padre che ha donato lo spirito di discernimento sulla mia storia e di saggezza alla riflessione teologica del mio Seminario.
Vedo don Francesco, don Carlo, don Roberto, don Andrea e un sacco di altri don e benedico il Padre per il dono della mia vocazione e dell’amicizia con loro, fonte perenne della crescita del mio essere persona in relazione.
Vedo i fratelli e le sorelle del mio paese d’origine, S. Vittore Olona, e benedico il Padre per la cura con cui ha accompagnato la ferialità della mia crescita.
Vedo gli amici della Parrocchia di Milano S.Luca e benedico il Padre per il ministero e per l’affetto di cui sono circondato.
Vedo gli amici del Gruppo Scout Roma 122 (e non solo!) e benedico il Padre che mi ha introdotto in questo mondo affascinante e mi ha educato, attraverso di loro, ad essere giovane prete.
Vedo che non vedo con gli occhi fisici tutti, ma li raggiungo con i sensi spirituali e benedico il Padre che mi ha concesso, anche in questa maniera, di stare vicino alle altre creature del sesto giorno.
Benedico il Padre per tutte le persone che con me hanno vissuto in modo intenso, sereno e casto il loro eros, e mi hanno così sussurrato la necessità, la possibilità e la plausibilità di un tale lavoro teologico.
Attraverso voi vedo realmente il volto della Trinità e per questo benedico il Padre che ha creato agli uomini e le donne, figli suoi.
Amen.

lunedì 18 maggio 2009

Tragedie

«Possiamo perdonare un bambino che ha paura del buio. La vera tragedia della vita e' quando gli uomini hanno paura della luce».
Platone

Sguardo straniero

Immigrati urla e silenzi
di Barbara Spinelli
Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura - in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati - è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.
Negli ultimi vent'anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.
George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra - contro il terrore - era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.
Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.
Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).
Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi. Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.
La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.
Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.
Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando.

domenica 17 maggio 2009

Esorcismi

Ci sentiamo presto
di Massimo Gramellini
Passeggiando fra gli stand della Fiera del Libro, così come in qualunque altra festa, convegno o luogo di convivenza forzosa fra simili, ogni dieci passi ci si imbatte in una persona che non vedi e non senti da molto tempo. Ci si saluta con estrema cordialità, ma anche con una certa fretta, perché dieci passi più indietro già si profila un’altra persona da salutare.
L’incontro si riduce a una stretta di mani logorate dall’uso o a uno scambio di baci al vento (se per sbaglio qualcuno centra la guancia dell’altro viene guardato con sospetto, come se fosse portatore di qualche peste miracolosamente sfuggita al terrorismo dei media). La conclusione dello struscio, invece, è sempre la stessa: ci sentiamo presto, dice uno. E l’altro, di rimando: hai il mio nuovo cellulare? Segue la ricerca di una biro e di un posto dove scrivere il numero, di solito il bordo del programma, almeno fino a esaurimento dei bordi. Salvo scoprire che il numero è sempre lo stesso, come la scarsa volontà-necessità di sentirsi.
Eppure quel «ci sentiamo presto» rimbomba di continuo sotto le volte del Lingotto, così come in ogni altra festa, convegno e luogo di convivenza forzosa fra simili. Non è solo una piccola menzogna dettata dall’ipocrisia. Piuttosto è un modo di esorcizzare la morte. I distacchi sembrano sempre addii, ne sa qualcosa chi trascina all’infinito una storia d’amore pur di non dover sopportare il trauma dello strappo. Perfino durante le cerimonie apparentemente innocue dei saluti, le persone cercano rassicurazioni sull’immortalità. A proposito: ci sentiamo presto.

Fidiamoci!


«Se non c’è più bellezza, gli uomini non possono far altro che odiarsi».
Olivier Clément, Occhio di fuoco, 26