di Massimo Gramellini
Le icone erano bellissime: lui si era calato nei panni di un nero fascinoso col pizzetto e gli occhiali a specchio, lei in quelli di una bruna dagli occhi di cerbiatto. Ho immaginato la tristezza delle loro «prime» vite, trascorse in stanze attigue a smanettare sulla tastiera del computer, fingendosi qualcuno di meglio e di diverso, in una sorta di chirurgia plastica della coscienza. E ho pensato a quanti milioni di persone hanno ormai trasformato il passatempo di una sera in una dipendenza, al punto da investire più emozioni nella vita finta che in quella vera. Nella vita finta si è sempre belli ed eleganti, nessuno deve lavorare su se stesso per migliorarsi, né piegare la schiena sotto il peso delle responsabilità. Ogni tanto però c’è un cortocircuito. La vita finta invade la vera, creando dalle viscere dei sogni un evento mitico come l’elezione di Obama. Ma più spesso è la vita vera che invade la finta e dà lavoro agli avvocati, non riuscendo più a darlo agli psicologi.
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