sabato 19 gennaio 2008

Colpevole e contento


E speriamo che Cuffaro non dica che gli è capitato tutto ciò

perché è cattolico...

"La Sapienza" amorevole


Ci lasciamo educare ancora dal Vangelo della Liturgia quotidiana
per dire parole sapienti circa gli eventi di questi giorni:

"Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mc 2, 16-17)

Democrazia minima


Democrazia minima

di Ilvio Diamanti

Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso, a tale proposito, il loro dissenso. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria, come ha fatto il Rettore, per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile fondata sulla "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica. Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana. Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo. 67 professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila. Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8 % dei professori e dallo 0,2 % degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va comunque concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri. Una democrazia incapace di "tollerare" il dissenso (anche quando esprime posizioni "poco tolleranti"), neppure se è così minuscolo, ci appare seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Se non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società. La colpa non è del 2 % degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2 % della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro. Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.

(18 gennaio 2008)

venerdì 18 gennaio 2008

I professori satanici della Sapienza - Radio Maria

Tanto per non dimenticare chi getta benzina sul fuoco

Teka P - Caragna No -Teatro Leonardo, Milano 19/12/2005

CARAGNA NO (Maghini)

caragna no, càr el me fioeu /so ben che 'sto mond làder
l'è no el dipint d'on quader
perciò, ti, caragna no

caragna no, càr el me fioeu / t'el disi anmò: caragna no
so ben che in 'sto mond nègher
gh'è poc de sta su allégher / perciò, ti, caragna no

gh'è no lavorà, ma se g'hoo de faa?
foo domà quel che pòdi, / son't minga el Berlusconi
perciò, ti, caragna no

riconossi che in quel moment chi /
gh'è propi nient de riid
ma quand te penset che gh'è in gir / chi sta semper pèg de ti...

l'è giamò un pò ch'el disi, / fass no vegnì ona crisi
perciò, ti, caragna no...

càr el me fioeu / t'el disi anmò
caragna no!
so ben che 'sto mond lader /
l'è no el dipint d'on quader
perciò, ti ca, cara, / caragna........ no

NON PIANGERE

caro figlio mio, non piangere / so bene che questo mondo ladro
non è il dipinto di un quadro / per questo, tu, non piangere

caro figlio mio, non piangere / te lo dico ancora: non piangere
so bene che in questo mondo nero
c'è poco da essere allegri / per questo, tu, non piangere

non c'è lavoro, ma cosa devo fare? / faccio solo quello che posso,
non sono mica Berlusconi / per questo, tu, non piangere

Riconosco che in questo momento / non c'è propio niente da ridere
ma quando pensi che in giro / c'e sempre chi sta peggio di te...

è già da un po' che lo dico, / non farti venire una crisi
per questo, tu, non piangere...

caro figlio mio / te lo dico ancora:
non piangere!
so bene che questo mondo ladro / non è il dipinto di un quadro
per questo, tu............. non piangere.

Senza parole


Sic et non
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Sic et non ("Sì e no") è un opera minore di Pietro Abelardo (1079-1142), in cui il filosofo rilevava coraggiosamente che la Sacra Scrittura e l'insegnamento dei Padri della Chiesa contenevano in più punti affermazioni contraddittorie, che venivano messe a confronto.
Il libello, scritto dopo il concilio di Soissons (aprile 1121), è diviso in tre parti: nella prima ("Prologo") vengono enunciati i criteri che permettono di conciliare tra loro le apparenti contraddizioni rilevate (perlopiù ciò viene imputato ai molteplici significati di una stessa parola); nella seconda (il cuore dell'opera, più volte rimaneggiato e citato da Abelardo stesso) sono raccolte le citazioni dalle Sacre Scritture e dai detti dei padri della Chiesa; nella terza invece vi sono citazioni dalle Retractationes di Sant'Agostino.

giovedì 17 gennaio 2008

Il servizio dei superiori


"Qual è quindi il servizio possibile dei superiori? La comunione più profonda fra i membri, non limitando il servizio dell'autorità al 'mero compito di coordinare le iniziative dei membri', ma di 'costruire assieme ai fratelli e sorelle delle 'comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa' (Codice Diritto Canonico, can. 619)" [pag. 127].

"Servo è la parola che traduce il termine greco che significa anche 'schiavo'. Indica qui non tanto uno che non è libero, piuttosto uno che sa chi è il suo padrone, perché appartenere significa avere una identità, quella del padrone. Appartenere al Signore è una dignità, perché il lavorare per Lui ci fa fare il suo stesso lavoro: Lui seminatore ci fa arare, Lui pastore ci fa pascolare, Lui servo, ci fa servire, Lui risorto ci fa risorgere. Dal desiderio di essere simile al Signore proviene il fondamento della vita cristiana e della vita religiosa strutturata sui voti: l'obbedienza è il servizio di un servo chiamato ad essere simile al suo Signore obbediente e glorioso. Il superiore è un servo che ha cura della vigna del Signore, simbolo del popolo eletto, ha cura dei fratelli pascolando la comunità. Quale merito può vantare questo servo per un simile servizio? Quale ricompensa può desiderare? Non gli appartengono né la vigna, né i fratelli. Tutto è del Padre che associa il Figlio alla sua volontà di salvezza, e chiama gli uomini ad entrare nella logica dell'amore che salva. Si può così capire meglio il significato di "servo inutile". La parola greca suggerisce un senso più complesso di quello che evoca l'italiano. In greco 'inutile' significa 'senza utile', cioè senza profitto, senza guadagno. Il significato teologico che emerge è ricco: chi va a servizio nella vigna del Signore avendo cura dei propri fratelli non va in cerca di nessun guadagno [pag. 131]".

"Il servizio del superiore è quindi la comunione fraterna, affinché la persona si realizzi ad immagine di Dio nella relazione con gli altri. In altre parole: il ruolo del superiore è 'consolidare la comunione fraterna'. L'autorità ha il compito primario di costruire assieme ai fratelli e alle sorelle delle 'comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa' [pag. 145]".

"Un superiore saggio diffida della fidura affascinante che emerge dal ritratto degli adulatori. Gli dovrebbe bastare di essere servo che sa vincere la tentazione del potere, nascosta a volte anche nel 'sottile godimento di essere sempre sovraccarico di lavoro' ma nascosta anche dietro l'illusione ricorrente di pensare di essere in fondo più intelligente e più bravo degli altri, illusione che favorisce l'emergere di giudizi negativi sugli altri, maldicenze su alcuni, adulazioni nei confronti di altri, illusione che ha la sua radice in una fiducia cieca in se stesso e in una insicurezza altrettanto cieca che divide il mondo in due categorie di persone, i buoni e i cattivi che si riducono in adulatores et detractores? La comunità è impoverita dalla sterilità della rivalità fra quelli che sono per il superiore e quelli che sono contro di lui. Quando il superiore cambia, non cambia niente nella comunità, le divisioni rimangono le stesse. Questo veleno, come il demonio più potente, non viene sradicato se non con la preghiera e il digiuno [pag. 151]".

Michelina Tenace, Custodi della sapienza. Il servizio dei superiori, Lipa

mercoledì 16 gennaio 2008

Ascolto mite


"Fantasie. Le orecchie pos­sono mordere? La strana domanda scat­ta davanti al quadro di Victor Brauner, logo a Vercelli della mostra «Peggy Gug­genheim e l’immagine surreale». Due fauci ferine si sporgono da un volto u­mano al posto delle orecchie. Viva l’a­scolto mite".


Dino Basili, Tagliacorto, Avvenire 16.01.08

Convegno decanale delle famiglie


martedì 15 gennaio 2008

Giovanni Sollima - Sogno ad Occhi Aperti (Daydream) PART 1

Musica bella, editing interessante!

Piegare la schiena per zappare


So­no tormentato dal dubbio che non sempre i superiori abbiano meditato questa parabola (dei "due figli", Mt 21, 28-32) e ne abbiano quin­di tratto le rigorose conclusioni. Così rischiano di prendere qualche abbaglio allorché si tratta di scopri­re quali siano i figli veramente obbedienti.
Cortigiano non vuol dire collaboratore.
Adulare non è sinonimo di amare.
Dire «sì» non equivale a «fare».
Chi «si fa avanti» precipitosamente, quasi sem­pre scantona poi, non appena si trova fuori portata dalla vista del superiore.
Chi ha il «sì facile» sovente ha «l'impegno dif­ficile».
Il sorriso cerimonioso si accompagna inevitabil­mente al mugugno.
Gli specialisti dell'inchino - colonna vertebrale ad angolo retto - trovano una insormontabile difficoltà a piegare la schiena quando si tratta di afferrare la zap­pa e lavorare sul serio.
Quelli che si trovano immancabilmente in prima fila nelle parate ufficiali, finiscono volentieri nelle re­trovie (pantofole e poltrona) quando il calendario se­gna i grigi giorni feriali.
Certi «ribelli» sono i figli più appassionati della Casa. Il loro, sovente, è un amore deluso. Se sono «ribelli», può darsi che qualcuno li abbia feriti. «Se sono ribelli è, forse, perché sono fedeli a valori di­menticati» (Sulivan).
Certe «teste calde» hanno il solo torto di non saper adoperare la parola come turibolo. In realtà, un superiore intelligente sa di poter contare su di lo­ro. A occhi chiusi.
Possono avere qualche «parola sbagliata». Ma le azioni sono quelle giuste.


A.Pronzato, Vangeli scomodi, 353-354

"La Sapienza"?


A proposito dell'atteggiamento di alcuni cristiani
nella questione delle critiche alla visita del Papa a "La Sapienza".

Dal cap. 9 (versetti 51-56) del Vangelo secondo Luca:
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? ”. Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio.

lunedì 14 gennaio 2008

Spiritualità dell'obbedienza


Ignazio "presupponeva l'indifferenza" nei suoi re­ligiosi, ossia supponeva che avessero raggiunto la li­bertà interiore come frutto degli esercizi spirituali; prima di proporre una missione, "verificava l'inclinazione" direttamente o indirettamente, per poter "te­ner conto delle disposizioni", perché contava sulla persona più che sull'idea del progetto; tuttavia, rac­conta Gonçalves da Câmara, Ignazio manifestava di apprezzare molto la disposizione del religioso che "quanto a inclinazione diceva di voler non averne af­fatto", perché la totale libertà è garanzia di obbe­dienza vera, dal momento che allora si può cercare in tutto di fare soltanto la volontà di Dio.
Racconta an­cora Gonçalves che, una volta attribuita la missione, Ignazio poteva anche firmare in bianco fogli che sa­rebbero serviti a compiere bene un mandato, fidan­dosi totalmente della libertà e della creatività del reli­gioso in missione. (...)
II modo di governare di Ignazio, "gentile e autore­vole" insieme, ha un segreto: prima di tutto, Ignazio dedicava tempo e attenzione alla cosa in questione prima di decidere; secondo, pregava molto a questo proposito e riceveva luce da Dio; terzo, non decideva nulla di preciso prima di aver ascoltato il parere di chi se ne intendeva, interrogando ognuno su molte cose, tranne su quelle di cui lui stesso aveva piena conoscenza.
Il superiore deve dare una reale attenzio­ne ai suoi religiosi nel discernimento e avere fiducia in coloro che avranno libertà di iniziativa nella mis­sione. Lo Spirito Santo parla attraverso le persone, gli eventi, i pensieri, i sentimenti, per cui rispettare l'originalità di uno, le idee di un altro, le tendenze di un altro non è accondiscendere, ma riconoscere l'a­zione dello Spirito Santo in loro e favorire il di più di un servizio, non il minus. Spirituale è quindi il gover­no dove il superiore è un "esperto" dello Spirito Santo di cui egli è come il "portavoce", o il contem­platore.
Non sorprende quindi che il principio del gover­no per sant'Ignazio sia la docilità allo Spirito Santo. Essa spiega insieme la sua esigenza e la sua capacità di rispettare i sudditi. Senza la prassi del discerni­mento degli spiriti, una tale esigenza e una tale lar­ghezza rischierebbero di degenerare in autoritarismo o in lassismo. Il discernimento degli spiriti d'altronde non è possibile senza un'intensa vita di preghiera, di conoscenza della Parola di Dio. Il discernimento non è autentico senza la purificazione dell'ascesi che per­mette alla carità di risplendere. (...)

Il modo di comprendere il governo - e quindi l'obbedienza - è costitutivo del carisma e del cammi­no di formazione che una comunità propone ai suoi membri. Per questo è pericoloso prendere un aspetto di una tradizione spirituale e, sic et sempliciter, appli­carlo ad un'altra.
Se i concetti di "governo", di superiore, di obbe­dienza vengono estrapolati dal contesto di una spiri­tualità complessa, si favoriscono le aberrazioni e gli abusi. Come l'abuso di chi ha l'autorità e richiama i suoi sudditi all'obbedienza cieca di sant'Ignazio senza averne il genio mistico e la carità, senza cioè assi­curare una formazione adeguata che verifichi il grado di adesione a Cristo della persona, senza che sia ga­rantita, insieme alla prassi dell'obbedienza, la pre­ghiera personale, l'autentica pratica del discernimen­to, lo stesso zelo per la carità fraterna e l'aspirazione all'umiltà perfetta. Vi è una sottomissione che fa del religioso un mercenario o un fariseo, un ateo sterile.
L'obbedienza, invece, deve portare alla contemplazione di Dio.


Michelina Tenace, Custodi della sapienza. Il servizio dei superiori, 51-55.

domenica 13 gennaio 2008

La Casa del Padre


La CASA della VECCHIA ZIA
Come immaginiamo, come presentiamo la Casa del Padre?
Il modello, sovente, è dato da certe case antiche, aristocratiche. Dentro, tutta roba di classe. Mobilio artistico. Tappeti persiani. Vasellame cinese. Quadri d'autore. Ritratti (tanti, troppi), cimeli, medaglie di antenati. Museo. Archivio. Vi si conservano, gelosamente, le glorie del passato.
In certe stanze è vietato rigorosamente l'ingres­so. Da un'altra parte non si può andare perché è stata data la cera sul pavimento. Finestre chiuse. Imposte chiuse. Perché il sole potrebbe rovinare i delicati tendaggi. Aria che sa di muffa, di chiuso, di antichità. Non si respira. Pare di soffocare. Cartelli da tutte le parti: non toccare, non entra­re, proibito far questo, vietato far quell'altro, atten­ti alle scarpe sporche... Guai ad alzare la voce, a cantare. C'è la vecchia zia, acida, bisbetica, che soffre di nervi... E detesta la musica moderna. Adora Bach. I discorsi, noiosissimi. Sempre le stesse cose. La stessa solfa. Ripetizione delle glorie del passato e recriminazioni sul presente: «Dove andiamo a finire? Ai miei tempi...». Soprattutto: atteggiamento di superiorità e di disprezzo per quelli che sono fuori, che non godono dei nostri privilegi, che non hanno il nostro sangue nelle vene, che non possono vantare il nostro blaso­ne, una razza inferiore... Guai se i figli del vicino mettono i piedi in questa casa. Potrebbero sporcare, potrebbero turbarne l'or­dine rigorosamente stabilito.
Non abbiamo un po' la tentazione a ridurla così la Casa del Padre? Una Casa di privilegiati, una specie di Museo, di archivio. Tutto in ordine. Tutto già predisposto. So­prattutto, nessuna novità. Si è sempre fatto così. Milioni di proibizioni. Un cerimoniale esatto da osservare. Tutto rigida­mente stabilito. Manca l'atmosfera che dia la gioia di viverci.
Invece dovrebbe essere una Casa dalle finestre e dalle porte spalancate. Senza visi arcigni a custodir­la. Una Casa in cui tutti dovrebbero trovarsi a loro agio. Nessuno sentirsi impacciato. Poter ridere, scherzare e... fare capriole. In cui non dico sia lecito disegnare i baffi al ri­tratto dell'antenato che ha partecipato alla battaglia di Lepanto, ma perlomeno è possibile appendere quadri nuovi, con personaggi di attualità. In cui si ha il coraggio di mettere in soffitta le suppellettili che non servono più. In cui la storia la scriviamo anche noi. In cui la vecchia zia, acida, bisbetica, che soffre di nervi, con le sue manie, le sue crisi, le sue fissa­zioni, non condiziona la vita di tutti, non blocca la vita degli altri. Le vogliamo tutti bene a questa vecchia zia. La curiamo, se ha bisogno. Ma ci lasci vivere. Ci lasci lavorare. Ci lasci respirare. Non ci tolga la gioia di vivere. E se strilla, lasciamola strillare. Non le metteremo certo le puntine da disegno sulla poltrona preferita e nemmeno la fotografia del­la cantante alla moda nel suo libro di devozioni, ma non asseconderemo più le sue paturnie. E se grida: «Dove andiamo a finire?», grideremo più forte: «Avanti!».
La Casa non dobbiamo immaginarla come il ca­polavoro di un architetto raffinato. Dev'essere il capolavoro dei figli. Dev'essere una casa di famiglia dove «c'è sem­pre un po' di disordine, le sedie talvolta mancano di un piede, i tavoli sono macchiati d'inchiostro e le scatole di marmellata si vuotano da sole nella di­spensa» (Bernanos).
In questa Casa il centro è il cuore del Padre. E i mattoni, le pietre vive siamo noi. Noi siamo responsabili dell'atmosfera, dell'aria che vi si respira. Possiamo farne un capolavoro. O un inferno.

Di fronte al Cristo della Trasfigurazione, Pietro ha esclamato: «È bene stare qui». Ogni fratello, nella Casa, deve poter ripetere lo, stesso grido: «È bene, è bello stare qui». Nella Casa, sulla terra, ci si acclimata al Paradi­so. Non al Purgatorio. Né, tantomeno, all'Inferno. La Casa deve essere «la prova generale» del Pa­radiso.


Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 302-305