sabato 13 dicembre 2008

Classe di carta

Inchiostro simpatico
di Massimo Gramellini
Fino all’altra sera avevo il sospetto che l’Italia fosse nelle mani di una classe dirigente superficiale e furbastra, simpaticamente ispirata alla famiglia Cesaroni. Ma poi ho visto la puntata di «Report» in cui Colaninno, messo all’angolo da quella judoka della notizia che è Milena Gabanelli, cercava fra i papiri del suo ufficio la clausola statutaria che dovrebbe impedirgli di vendere entro cinque anni l’Alitalia. Cercava e non trovava, lo Steward Maximo, ma ci rideva sopra. Si sa come sono le clausole, specie quelle cresciute nel microclima peninsulare: animaletti infingardi che si nutrono di inchiostro simpatico e il mercoledì si intrufolano fra le pieghe di una legge per amore dei manager («Tanzi, io ti salverò!») e la domenica scappano a gambe levate dagli statuti delle compagnie aeree. Sempre all’insaputa dei legittimi proprietari, naturalmente. E confidando nel disinteresse ostentato dell’opposizione, che non ha tempo per inseguire le clausole, dovendo occuparsi di cose molto più importanti, delle quali ci verrà fornito un elenco appena possibile, cioè mai.
Sì, fino all’altra sera avevo il sospetto che l’Italia fosse nelle mani ecc. ecc., ma adesso non l’ho più, perché il sospetto è diventato certezza. Viviamo momenti in cui uno guarda gli esempi che gli arrivano dall’alto e, per quanto si sforzi di imitarli, non riesce a essere altrettanto approssimativo e cialtrone.

venerdì 12 dicembre 2008

Rendersi conto

"A Messa si arriva in orario". E il ritardatario si offende.
di mons. Mario Delpini
Avvneire - 7 giugno 2008
Non ho mai capito come si spieghi il ritardo dei treni: si sa la distanza, si sa la velocità, che ci vuole a fare un orario? Più incomprensibile dei ritardi del treno è il ritardatario alla Messa della domenica. È un cristiano convinto: la Messa è il centro della vita. Sa l’orario: è sempre lo stesso da 20 anni. È domenica: c’è una ragionevole possibilità di organizzarsi. Eppure il ritardatario arriva in ritardo. Al suo arrivo qualcuno gli dedica un cenno di saluto e così ha già perso il filo delle letture. Mentre si siede, la sedia si sposta e anche la lettrice si distrae: salta alla riga successiva. Il prete che celebra osserva e si indispettisce, tanto che neppure s’accorge che la lettrice s’è confusa. Il ritardatario si accomoda, ma, prima di ascoltare, si guarda intorno e s’incuriosisce: come mai la statua della Madonna a fianco dell’altare? La spiegazione è stata data all’inizio, ma il ritardatario era in ritardo. Più o meno verso la predica, il ritardatario riesce a concentrarsi. Il prete parla del radunarsi dell’assemblea e dei riti di introduzione e quindi dice dell’importanza di arrivare per tempo in chiesa. Il ritardatario si indispettisce: ce l’ha con me? Come si permette?

"Non lo sappiamo"

il Vangelo di oggi secondo Matteo 21, 23-27
Il Signore Gesù entrò nel tempio e, mentre insegnava, gli si avvicinarono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo e dissero: «Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?». Gesù rispose loro: «Anch’io vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, anch’io vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?». Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: “Dal cielo”, ci risponderà: “Perché allora non gli avete creduto?”. Se diciamo: “Dagli uomini”, abbiamo paura della folla, perché tutti considerano Giovanni un profeta». Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». Allora anch’egli disse loro: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose».

Anche oggi ho avuto modo di notare che circostanze ed opportunità chiudono la bocca rispetto a risposte doverose, note, risapute. E spesso chiudono anche le orecchie di fronte a domande doverose, note e risapute.
Meno male che Gesù, da gran signore, si sottrae a questo giochetto, lasciando a bocca asciutta gli esperti dell'equilibrismo, che si destreggiano ad essere contemporaneamente da una parte e dall'altra, pur di salvarsi la faccia, portare a casa il loro scopo, non perdere quell'appoggio o quell'altro... i famosi sostenitori del "sic et non" (cioè del "così e non così"... sullo stesso argomento), che lasciano altri nella difficoltà di dover prendere una decisione, senza averne gli elementi.
don Chisciotte

Se queste sono news...

... hanno un solo chiodo fisso!

giovedì 11 dicembre 2008

Affascinanti vertigini

Una torre per la tv costruita negli anni '90 in mezzo alla campagna russa, nei pressi della foresta di Terema, alta 300 metri. E' abbandonata da tempo, ma rappresenta comunque una delle attrattive per i pochi turisti che si spingono nella zona. Uno di loro ci è salito sopra e ha documentato la sua impresa con queste immagini. Nella foto si vede il primo pezzo della salita, ancora sgombro dal ghiaccio e dove la visibilià è ancora buona (Victorprofessor)

Ripensandoci

Qualche anno dopo… l’ordinazione
intervento all’Ora Media con la quinta teologia

La Parola di oggi: Vangelo secondo Matteo 21, 18-22
La mattina dopo, mentre rientrava in città, il Signore Gesù ebbe fame. Vedendo un albero di fichi lungo la strada, gli si avvicinò, ma non vi trovò altro che foglie, e gli disse: «Mai più in eterno nasca un frutto da te!». E subito il fico seccò. Vedendo ciò, i discepoli rimasero stupiti e dissero: «Come mai l’albero di fichi è seccato in un istante?». Rispose loro Gesù: «In verità io vi dico: se avrete fede e non dubiterete, non solo potrete fare ciò che ho fatto a quest’albero, ma, anche se direte a questo monte: “Lèvati e gèttati nel mare”, ciò avverrà. E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete».

Qualche anno dopo radico sempre più la mia fede su questo Figlio di Dio che ha scelto di incarnarsi, fino al punto di avere fame, condividendo nella carne tutte le più profonde dinamiche delle creature volute e a sua immagine.
Qualche anno dopo mi commuovo che l’Altissimo, nonostante abbia visto tanti nostri errori, continui a dichiarare la sua “fame” di ministri ordinati della sua Chiesa, dalla sua Chiesa, per la sua Chiesa. E fame anche di me, tra questi ministri.
Qualche anno dopo mi meraviglio ancora che Gesù mi guardi, si avvicini a me, mi pensi e mi ricrei come portatore di una Notizia buona, sebbene Lui conosca le mie asperità, le mie rigidità, le mie durezze.
Qualche anno dopo, in questi giorni, accetto di fungere da “contro-miracolo” (secondo la definizione di Silvano Fausti), l’unico contro-miracolo del Vangelo, sperando almeno di servire come monito ad altri, in qualità di puledro o di albero seccato.
Qualche anno dopo gioisco ancora di avere un Signore che si aspetti ovunque frutti saporosi, anche fuori stagione; un Signore che non si lascia vincere dallo scoraggiamento, che ci prova sempre, ricordando e suscitando nei suoi discepoli la ferma convinzione che ogni momento è quello buono per fare frutti.
Qualche anno dopo mi rattristo perché la fame di Gesù, la domanda d’amore di un Dio bisognoso, resta spesso delusa. La prima parte di questo episodio è come una istantanea della delusione: l’albero più vicino e dai frutti più dolci, il fico, è il popolo di Dio, che ha sempre bisogno di essere stimolato ad avere fede, a non dubitare dei metodi del Salvatore che si fa servo.
Qualche anno dopo sono illuminato dalla Parola a valutare con fermezza il mio passato: i propositi, i sogni, il ministero… “tante foglie, nessun frutto”, “molto fumo, niente arrosto”. Fatto oggetto di misericordia perché strutturalmente bisognoso, inconcludente, in-efficace.
Qualche anno dopo, appena varcata la soglia dei quarant’anni, cerco di imparare dagli occhi di Gesù come guardare la mia sterilità, superando la tentazione di abbandonarmi alla lamentela, alla rabbia, alla frustrazione.
Qualche anno dopo, sono su questo colle, su questo monte. E oso ripetere a me il comando del Signore: “Marco, sradicati e accetta di essere gettato nel mare della vita”. E stacci.
don Chisciotte

Bestie part-time

Criminali part-time
"Eravamo nervosi"
di Massimo Gramellini
Nel traffico di ieri mattina ho visto due donne giovani ed eleganti scendere dai rispettivi carri armati per insultarsi sanguinosamente riguardo a non so quale diritto stradale o feudale di precedenza. Gli occhi, in particolare, erano uno spettacolo spaventoso: dilatati in un’espressione stravolta, tipica di chi ha abusato di sostanze psicotrope o ha perso la misura reale delle cose. Asserragliato nella mia vettura, ho dirottato lo sguardo sulla prima pagina del nostro giornale, dove uno dei ragazzi che nel fine settimana devastarono per puro sfizio la stazione di Avigliana confessava: «Eravamo nervosi. E allora?».
E allora ci si chiede da dove arrivi questo virus esistenziale che rende tutti così suscettibili di fronte a ogni minimo attentato all’amor proprio. Le cronache sono un rosario senza fine di delitti e baruffe, familiari e condominiali. Laddove esiste l’obbligo della convivenza o della vicinanza, l’essere umano esplode in reazioni sproporzionate. Ci si prende a pugni, e talvolta a pistolettate, per un cane che abbaia, una frase sgarbata, un’auto parcheggiata male. Ultime gocce di un bicchiere riempito ogni giorno, oltre che da troppo alcol, da un distillare di dispetti e rancori.
Futili motivi, si dice in questi casi. Ma è futile anche continuare ad attribuirne la colpa ai soliti sospetti: la noia, lo stress, l’aggressività, il consumo eccessivo di carne, l’inquinamento acustico e atmosferico. Tranne l’ultimo, questi demoni sono sempre esistiti. E non basta dire che un tempo venivano convogliati nella macelleria collettiva della guerra. Come non basta scaricarne il peso sul solito capro espiatorio: la società. Qui sono nervosi i ricchi e i poveri, anzi, i ricchi più dei poveri. Sono nervosi gli abitanti delle periferie anonime e quelli dei luoghi turistici. Sono nervosi gli assunti e i licenziati, i single e gli sposati, i creativi e i burocrati, i colti e gli ignoranti. La spiegazione sociologica diventa un alibi per espellere un problema che invece sta dentro di noi.
«Lei non sa chi sono io», è la classica frase dell’isterico in azione. Ma forse andrebbe cambiata in: «Io non so chi sono io». Questa rabbia senza passione, infatti, è la forma di rassicurazione di un ego sempre più debole e infelice. Un ego spaventato dal futuro e bisognoso di attestati, a cui le piazze sociali di Internet hanno fornito una sterminata passerella, che si pone al centro del mondo ed esalta il potere volatile delle emozioni, sostituendole ai sentimenti e a quella suprema affermazione di sé che consiste nel sapersi controllare sotto pressione. Un ego che, non essendo in grado di stimarsi da solo, ha perennemente bisogno di conferme, e non riuscendo ad averle, le cerca nella prevaricazione del prossimo. Per riuscire a sentirsi alto, deve per forza abbassare gli altri. E poiché non si rispetta, interpreta ogni gesto sfavorevole come una mancanza di rispetto nei suoi confronti.
La felicità, dice il saggio, consiste nel desiderare ciò che si ha. Mentre troppi desiderano ciò che non hanno e si sentono dei falliti o delle vittime se non riescono a raggiungerlo. Da qui il paradosso di persone che digeriscono senza fare una piega ingiustizie e drammi autentici, come la perdita del posto o lo sfascio di una famiglia, ma reagiscono in modo scomposto perché un passante in bicicletta ha osato sfiorare la punta dei loro mocassini.
C’è un altro paradosso: ormai gli scoppi d’ira avvengono più nel tempo libero che in quello lavorativo, in casa o per strada più che in ufficio. Come se solo gli ambienti di lavoro conservassero ancora quel minimo di regole gerarchiche che riescono a tenere a bada gli istinti primordiali. E come se persino i maschi avessero affidato al tempo libero, e non più al lavoro, il compito di misurare il loro valore.

mercoledì 10 dicembre 2008

60 anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

Shopping compulsivo

Dall'esperienza in un negozio "La sindrone dello shopping"
Libro sui vizi dell'acquisto compulsivo
Sette anni da commessa ed ecco il romanzo-reality
E' laureata in Arti e Scienze dello spettacolo ma prima di diventare insegnante, per mantenersi agli studi ha lavorato per sette anni in un negozio di abbigliamento. Un'esperienza dettata dalla necessità che ha però acceso in Mariafrancesca Venturo una vera e propria passione: fotografare con i suoi occhi le patite dello shopping. E allora è stato subito naturale per la giovane commessa annotare nei dettagli le debolezze e le fragilità delle clienti. Appunti scrupolosi con tanto di elenco delle richieste stravaganti e dei quesiti curiosi quanto imprevedibili, frutto delle giornate di lavoro spese in stressanti maratone per assecondare donne sull'orlo di una crisi di nervi, pronte a tutto pur di portarsi a casa l'abbinamento giusto, quasi che da un azzeccato assortimento di colori possa dipendere la felicità su questa terra. Infine, i vizi delle patite dell'acquisto compulsivo e le virtù delle commesse sono stati raccolti in un romanzo-reality tra l'ironico e l'amaro (...). Il tema sviluppato da Mariafrancesca è solo apparentemente frivolo: che cosa si nasconde dietro a quel tormentone d'altri tempi che recita "il cliente ha sempre ragione", un credo per le venditrici e i venditori d'altri tempi, ma che oggi, nell'èra del turn over a tutti i costi e del precariato perenne, sembra svanito nel nulla? Signore "abbondanti" che pretendono di entrare a tutti i costi nella taglia 42 mentre quella consona sarebbe la 48; maniache dell'apparire che provano decine di pantaloni a caccia della perfezione impossibile, clienti incontentabili, intenzionate ad affidare a un abito il potere di poter cambiare vita... Tutto questo e molto di più Mariafrancesca Venturo aveva annotato nel suo blog. (...) "Più andavo avanti a scrivere ed ad appuntare le strampalate richieste delle clienti più mi rendevo conto che dietro quelle domande c'era un ansia di approvazione, una sottile richiesta di conferme che spesso andava oltre il trovare la gonnellina giusta. (...) Sindrome dello shopping, come difendersi? Qualche consiglio da chi è dall'altra parte.
"Penso che le prime a doversi difendere dalla sindrome dello shopping, siano le clienti stesse. Prima di tutto perché l'ansia per l'acquisto, che poi è spesso legata a un'ansia dell'apparire, ci svuota il portafogli con la stessa velocità di superman, il supereroe che riusciva a superare la velocità della luce, e poi perché quando il piacere per un capo nuovo si trasforma in mania o, ancor peggio, in ossessione, la serenità svanisce come un capello sulla brace e il sorriso si capovolge dando vita a sguardi sempre più imbronciati. Alle commesse dico: non smettete mai di sorridere. Spesso il sorriso e l'autoironia, il sapersi prendere in giro con leggerezza ma mai con superficialità, sono la miglior medicina anche per i piedi gonfi. (...)

martedì 9 dicembre 2008

Oggi solo cose belle!

Tratto dal film "La tigre e la neve"
Su su.. svelti, veloci, piano, con calma...
Poi non v'affrettate, non scrivete subito poesie d'amore, che sono le più difficili, aspettate almeno almeno un'ottantina d'anni.
Scrivetele su un altro argomento... che ne so... sul mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo... che non esiste una cosa più poetica di un'altra!
Avete capito?
La poesia non è fuori, è dentro... Cos'è la poesia, non chiedermelo più, guardati nello specchio, la poesia sei tu...
..e vestitele bene le poesie, cercate bene le parole... dovete sceglierle!
A volte ci vogliono otto mesi per trovare una parola!
Sceglietele...che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere.
Da Adamo ed Eva... lo sapete Eva quanto c'ha messo prima di scegliere la foglia di fico giusta!!!
"Come mi sta questa, come mi sta questa, come mi sta questa.." ha spogliato tutti i fichi del paradiso terrestre!
Innamoratevi, se non vi innamorate è tutto morto... morto!
Vi dovete innamorare e tutto diventa vivo, si muove tutto... dilapidate la gioia, sperperate l'allegria e siate tristi e taciturni con esuberanza!
Fate soffiare in faccia alla gente la FELICITÀ! E come si fa? ...fammi vedere gli appunti che mi sono scordato... questo è quello che dovete fare...
non sono riuscito a leggerli!
Per trasmettere la felicità, bisogna essere FELICI e per trasmettere il dolore, bisogna essere FELICI.
Siate FELICI!!!
Dovete patire, stare male, soffrire.. non abbiate paura di soffrire, tutto il mondo soffre!
E se non avete i mezzi non vi preoccupate... tanto per fare poesie una sola cosa è necessaria... tutto.
Avete capito?
E non cercate la novità... la novità è la cosa più vecchia che ci sia...
E se il verso non vi viene, da questa posizione, né da questa, ne da così, buttatevi in terra! Mettetevi così!
Ecco... ohooo... è da distesi che si vede il cielo...
guarda che bellezza...perché non mi ci sono messo prima...
I poeti non guardano, vedono.
Fatevi obbedire dalle parole... Se la parola 'muro' non vi da retta, non usatela più...per otto anni, così impara! Che è questo, bhooo non lo so!
Questa è la bellezza, come quei versi là che voglio che rimangano scritti li per sempre...
forza, cancellate tutto che dobbiamo cominciare!
La lezione è finita.
Ciao ragazzi ci vediamo mercoledì o giovedì...
Ciao arrivederci!

postato sul nostro blog il 30 novembre 2007

A proposito di "terreno fertile"...

... la BMW GS 1150 Adventure è tornata dal tagliando!!

lunedì 8 dicembre 2008

Quando il "conflitto" può essere sano

Il tempo delle «emozioni blande»
Il declino del conflitto
di Giuseppe De Rita
In un cupo soliloquio della Tosca, Scarpia esprime con volgare voluttà il concetto che «ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso».
È un concetto che gli amanti dell'opera lirica recitano spesso, anche se sempre più raramente lo mettono in opera. Ma è un concetto però cui restano affezionati i teorici e i militanti del conflitto sociale e politico, sempre convinti che la storia e il potere si conquistano facendo rivoluzioni o almeno esercitando la forza. E anche quando, com'è attualmente, la forza e le rivoluzioni sono solo mediatiche e virtuali, l'ispirazione resta la stessa: il conflitto innanzitutto.
Chi osservi invece le cose italiane di questi ultimi tempi scopre che di conflitto ce n'è poco: non ce n'è in fabbrica e nei campi come retoricamente si è spesso declamato; non ce n'è negli uffici pubblici, visto che neppure l'aggressività brunettiana è riuscita a far scattare rivolte anche minimali; non ce n'è in tutto il vasto settore dei servizi alle imprese e alle persone, ormai segnato da professioni (dal pubblicitario alla badante) che sono strutturalmente negate alla mobilitazione collettiva, figurarsi al conflitto. Può spiacere a qualcuno, ma l’attuale composizione sociale non presenta grandi componenti conflittuali.
Si potrà dire che l'affermazione è contraddetta dalle recenti agitazioni di piazza degli studenti e dai recenti scioperi del trasporto aereo; ma credo che un po' tutti abbiano avvertito la loro carica altamente corporativa e la loro incapacità di creare valenza generale e mobilitazione politica. Come potenziali minacce conflittuali sono stati «lasciati cadere»; e non solo dalle sedi del relativo potere decisionale, ma anche dalle sedi tradizionalmente di lotta e potenzialmente di alleanza (il sindacato, ad esempio). Tutto quindi è tornato nell'ordine.
Nell'ordine. Che significa oggi questo termine? In superficie sta a significare che abbiamo più voglia di istituzioni funzionanti che voglia di trasformarle, riformarle, rivoluzionarle. Vince il pragmatismo del quotidiano, non un’idea di futuro migliore; può esser triste ammetterlo, ma tutto ciò porta a una bassa popolarità anche del riformismo, del resto da sempre visto solo come alternativa pacata al conflitto, non come ideologia autonoma e autopropellente.
Resta allora il «mellifluo consenso». È probabile che alla parte più combattiva della nostra classe dirigente venga un attacco di bile di fronte a tale locuzione, magari nel sospetto che essa riveli una più o meno cosciente berlusconiana strategia di dittatura morbida. Ma nei fatti dobbiamo verificare che oggi il consenso si conquista facendo ricorso a emozioni blande e non violente; e anche quando si scende in piazza, le emozioni devono restare blande, come sono quelle dei megaraduni, dei tour elettorali, dei girotondi, delle false primarie, dove tutto è mellifluo, anche se a lungo andare falso, non affidabile.
Perché, come ha acutamente notato Natalino Irti, viviamo un tempo in cui non c'è più rappresentanza (di interessi, di bisogni, di opzioni collettive) ma «rappresentatività esistenziale», di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell'esistenza, senza passioni e spessori di essenza. Non a caso, limitando la riflessione al puro campo politico, hanno oggi più successo le formazioni che si rifanno al disagio esistenziale (il leghismo, il dipietrismo) che quelle che devono (per necessitata ampia consistenza) far riferimento alla rappresentanza di interessi, bisogni e opzioni di carattere collettivo, più che ai turbamenti o ai rinserramenti esistenziali. (...)

"Non nel mio nome"

Questo nuovo logo significa:

"Not in my name", "Non nel mio nome".

Sarà applicato su quelle notizie o realtà dalle quali è quasi impossibile "togliersi" (in quanto uomini o cittadini o credenti) ma che non mi rappresentano.
Non mi rappresentano perché non sono secondo un'antropologia integrale e un autentico spirito evangelico.
E quindi vorrei far sapere che non concordo per nulla e che non dovrebbero pensare di far conto sulla mia approvazione-collaborazione-complicità.
Mi sa un po' di "fuga";
e in alcuni casi sarebbe più onorevole un virile distanziamento.
Lo farei, se non fosse che lascerei spazio ancora una volta a coloro che non mi rappresentano, e anche di questo "lasciare un posto vacante" mi sentirei responsabile.
Per ora riesco a fare questo: dichiarare che la mia coscienza si ribella di fronte a certe cose.
Riguardo quelle persone che si sentissero coinvolte in questa mia presa di posizione, sappiano che possono riferirsi a me come preferiscono: voglio rendere ragione delle mie affermazioni.
Chissà che anche altri, invece, non condividano questa mia valutazione.

domenica 7 dicembre 2008

Domande, domande, domande

Sulla scuola due pesi e due misure
di Franco Garelli
E’ difficile comprendere il recente affondo della Chiesa italiana contro il governo per i ventilati tagli alle scuole paritarie, tra cui quelle cattoliche hanno un peso rilevante. Lo sconcerto è diffuso più nell’opinione pubblica che nel mondo politico (sempre diplomatico nei rapporti con la gerarchia ecclesiale) e coinvolge non solo l’area laica ma anche non pochi ambienti cattolici.
Intendiamoci: la Chiesa può avere molte frecce nel suo arco nel rivendicare la parità di trattamento per le famiglie che scelgono la scuola privata rispetto a quella pubblica, nel ricordare che questo tipo di scuole hanno un peso piuma nel bilancio dell’istruzione (l’1%), nel denunciare che il decurtamento previsto dal governo di 1/3 dei fondi a suo tempo pattuiti dalla legge sulla parità scolastica può decretare la fine di questo importante servizio «pubblico»; ancora, nell’osservare che l’eventuale chiusura delle scuole «private» costringerebbe lo stato a prendersi a carico anche gli allievi di questi istituti, con un forte aumento della spesa pubblica per l’istruzione. Di qui la discesa in campo della Cei, che parla di «crisi profonda» della scuola paritaria e minaccia una mobilitazione in tutto il Paese degli istituti cattolici. Ciò che colpisce in questa dura reazione non è il merito di una questione da tempo controversa e sin qui senza una chiara (e auspicabile) soluzione, quanto i tempi e i modi in cui essa si è manifestata e il comportamento messo in atto al riguardo dagli attori coinvolti.
In un momento di forte deficit delle risorse pubbliche, in cui la crisi della finanza creativa sta affossando l’economia reale, in cui si prevedono tagli e amputazioni per tutti i settori della società, desta sorpresa che le scuole cattoliche pensino di sottrarsi alla cura da cavallo a cui è sottoposto il Paese. La rivendicazione della Cei avrà richiamato a molti la penosa situazione in cui versa la scuola pubblica, che di tanto in tanto produce morti e feriti tra i giovani che la frequentano, per la carenza di adeguate risorse per riqualificare gli spazi e renderli all’altezza di un Paese civile. Chi ha più voce in capitolo? Chi ha più diritto ad alzare la voce?
Altro punto controverso della vicenda è la pronta risposta del governo di fronte alla protesta dei vertici ecclesiali, che ha fruttato alle scuole paritarie l’immediato ripristino dei fondi decurtati (120 milioni per il 2009). Qui è emerso sia il «potere» della Chiesa nel far cambiare idea al governo nel giro di qualche ora; sia il diseguale trattamento che l’esecutivo riserva alle diverse parti sociali, pur in un tempo in cui si predicano sacrifici per tutti. Le opere della religione meritano certamente grande considerazione pubblica. Ma perché i partiti al governo sono stati così solleciti nel ripristinare i fondi per le scuole paritarie, mentre da mesi sono inflessibili nel confermare i pesanti tagli che attendono le università italiane e una ricerca scientifica sempre più ridotta al lumicino? È davvero sufficiente, come qualche «maligno» ha detto, che il Vaticano fischi perché Tremonti e Berlusconi obbediscano?
Singolare è anche la minaccia avanzata nella circostanza dalla Chiesa per costringere il governo a modificare un provvedimento che penalizzava le sue strutture. Se non ascoltate, le scuole cattoliche scenderanno in piazza, potranno organizzare sit-in e lezioni all’aperto, «occuperanno» i media, proprio come hanno fatto in questi mesi il personale dell’Alitalia, le famiglie che protestavano contro il maestro unico, i dipendenti di aziende travolte dalla crisi. Come a dire, che il linguaggio rivendicativo è ormai di casa anche negli ambienti ecclesiali, disposti a mostrare (magari con pudore) i muscoli per difendere i propri valori e «interessi» e meglio operare per il bene comune.
L’insieme della vicenda è comunque intricato. Anzitutto, quella del finanziamento della scuola privata (cattolica in particolare) è un’annosa questione che divide tutti i raggruppamenti politici, anche se i partiti del centro-destra sembrano i più sensibili e ossequienti ai richiami della Chiesa. Inoltre, la campagna della Chiesa per la scuola cattolica cade in un momento favorevole per l’istruzione privata, per la crescente domanda delle famiglie di ambienti più seri e omogenei per la formazione dei propri figli. Il trend rischia dunque di bloccarsi se lo Stato non interviene, se le famiglie in un periodo di crisi devono accollarsi per intero questo investimento formativo. Più in generale, la Chiesa italiana non si capacita del perché nella «cattolica» Italia non vi sia la parità di condizioni di scelta scolastica riscontrabile in molti altri Paesi europei, pur più distaccati dalla tradizione religiosa. Perché chi sceglie la scuola cattolica deve essere economicamente penalizzato in Italia, mentre ciò non succede nella laica Francia, dove gli istituti cattolici attraggono un numero di studenti tre volte superiore a quello delle omologhe scuole italiane? In sintesi, anche la crisi economica alimenta la battaglia sui temi della laicità dello Stato, coinvolgendo quel finanziamento alla scuola paritaria che da anni è oggetto di contesa pubblica.