sabato 21 marzo 2009

Primavera!

I "neuroni specchio"

E' comune dire che gli italiani "parlano con le mani", ovvero gesticolano molto.

Ma c'è anche chi è molto espressivo nel volto

e con tutta la gamma delle posture del proprio corpo.
Infine, scommetto che conoscete anche voi qualcuno che col proprio volto "mima"

- involontariamente - i contenuti e le emozioni che traspaiono sul volto e nelle parole

delle persone che sta ascoltando.

Questo fenomeno è chiamato dei "neuroni specchio": ecco un illuminante video!

dopo la festa del papà

«Mamma non c’è, lavora in Italia»
(...) Di lei, ai figli restano la minuscola foto della patente, una telefonata a settimana, i dolci che ogni tanto carica sull’autobus per Iaşi, la promessa che presto tornerà con tanti soldi. «Mi manca in ogni momento della giornata» Gabriela ha gli occhi lucidi «con papà non parlo come con lei. E per lui la casa non è mai pulita».
Nella campagna piatta attorno a Iaşi, il principale centro della Moldavia romena, capita di incontrare vecchi e bambini mentre gli adulti inseguono chimere di benessere a Occidente. Sarebbero 4 milioni, quasi un quinto della popolazione, i romeni emigrati, soprattutto in Italia e Spagna. Con la crisi che qui taglia il Pil del 3,5 per cento e gli stipendi del 20, si prevedono altre emorragie umane. E al capolinea orientale d’Europa si parla già di “orfani da migrazione”: una generazione affidata alle cure di nonni, zii, vicini. L’Unicef ne stima 350 mila nel Paese, di cui un terzo in Moldavia dove una famiglia non percepisce più di 2.140 lei al mese, 510 euro. Gli esperti studiano questo nuovo disagio minorile, che promette malissimo per il futuro del Paese: «A scuola rendono poco, e sono a rischio delinquenza» spiega Alex Gulei di Alternative Sociale, un’associazione di Iaşi che è stata la prima, nel 2005, a interrogarsi sull’abbandono da emigrazione. «Con la crisi in Italia e Spagna, non sono più i padri a partire per lavorare nei cantieri. Oggi se ne vanno le madri: la domanda di badanti e baby-sitter non è calata». I 350 mila “orfani bianchi” ipotizzati dall’Unicef sono per difetto. In Romania, sopravvive dal comunismo il sussidio statale per ogni bambino: 65 euro al mese fino ai due anni, 10 fino ai 18, ma se i genitori vivono in patria. Così tanti raccontano che mamma e papà lavorano nel villaggio accanto, o a Bucarest. «Solo il 7 per cento di chi va all’estero lo dichiara al Comune, come vorrebbe la legge» precisa Maricica Buzescu, coordinatrice degli psicologi scolastici nel distretto di Iaşi, 63 per 350 istituti, che da tempo chiedono rinforzi per aiutare questi ragazzi difficili. «I figli restano senza tutela legale: un problema, se devono iscriversi a scuola o ricoverarsi in ospedale». La psicologa ricorda bene i quattro recenti suicidi, (...): «Soffrono d’ansia e depressione. Oppure sono aggressivi e iperattivi. Gli stessi disturbi di chi è davvero orfano». (...) «Da qui si parte per coprire i bisogni primari» dice Moga. «Mi sono accorto che tanti emigravano quando ho smesso di comprare di tasca mia il pane per i bambini». Anche le insegnanti, a Liteni, prendono un’aspettativa per lavorare in Italia come badanti. «Guadagno 150 euro al mese» ammette Elena Baziluc, quarant’anni, italiano perfetto «a Palermo ne prendevo 900. Ho ristrutturato casa, comprato un’auto e un pezzo di terra, computer e regali per i miei figli. Senza indebitarmi». In genere i genitori tornano dopo qualche anno, (...) «Solo una minoranza raggiunge il benessere » informa Narcisa Marchitan, che dirige i Servizi sociali del Comune «gli altri lavorano all’estero senza contratto, saltuariamente. Non tornano perché qui è peggio». (...) Andreea Petriciac, psicologa di Save the Children, legge il malessere nei loro disegni: «I soggetti ricorrenti? L’attesa dell’autobus; due adulti pieni di bagagli... I nonni s’impegnano per educarli, eppure i piccoli sono insicuri, si attaccano a chiunque: aspettiamo di osservarli nell’adolescenza». (...)

venerdì 20 marzo 2009

giovedì 19 marzo 2009

Profeti

«Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.
Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”.
Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che é la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.
La camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili».

don Giuseppe Diana e i preti del Casalese, Natale 1991

scarica l'intero documento tra i nostri Testi o sul sito del Comitato

Un prete ucciso 15 anni fa

La mattina del 19 marzo '94, quindici anni fa, Giuseppe Diana fu ammazzato dai killer a Casal di Principe. Aveva preso posizione esplicita contro lo strapotere della famiglia
Don Peppino, eroe in tonaca ucciso dal Sistema dei clan
Le cosche tentarono di diffamarlo spargendo veleni dopo la morte
Rifondò la missione pastorale: denuncia e testimonianza contro le violenze e le sopraffazioni
di Roberto Saviano
La mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono. «Chi è Don Peppino?». «Sono io...».
Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere e opporsi, perché non sarebbe stato in grado di fare un'altra scelta.
Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo. Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l'innocenza è un'ipotesi lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell'esecuzione. Così distruggere l'immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. (...)
nel link prosegui la lettura di tutto l'articolo

mercoledì 18 marzo 2009

Lo shopping fa male

Due giorni di lavoro per rimuovere la roba e trovare il cadavere di una pensionata di 77 anni
travolta nel suo bungalow dagli oggetti che aveva accumulato per la sua mania di comprare
Gb, anziana malata di shopping, muore sepolta dai suoi acquisti
Di shopping si può anche morire. La mania di comprare senza una reale necessità ma solo per il gusto di accumulare abiti, oggetti e cose è costata la vita a una donna in Inghilterra, rimasta letteralmente sepolta dal cumulo di acquisti di una vita intera. Una montagna di oggetti ha infatti sepolto viva una pensionata di 77 anni, nel suo bungalow a Stockport, nella contea metropolitana inglese della Greater Manchester. Ci sono voluti due giorni di lavoro e due squadre di sei poliziotti per rimuovere tutta la roba e trovare il cadavere dell'anziana Joan Cucanne.
Ogni camera della sua abitazione era piena di roba, ma non solo. Anche il garage e la sua auto, una Rover 100, "straripavano" di oggetti, la maggior parte dei quali ovviamente inutilizzati. Secondo il Daily Mail gli agenti della polizia hanno trovato di tutto: gadget, vestiti, ombrelli, candele, ornamenti, vasi, molti dei quali nuovi di zecca. "Da 16 anni, comprava tutto ciò che le capitava tra le mani, per il semplice piacere di far compere e non perché le cose le servissero realmente" ha raccontato il miglior amico della donna. A dimostrare la sua affezione da shopping compulsivo possono bastare le 300 sciarpe di colori diversi che Joan possedeva. (...)
La donna non è mai stata sposata, anche se aveva un figlio. "Era una donna piacevole, con una forte personalità e sempre di buon umore". Così la ricordano gli amici e i vicini di casa. Nel suo bungalow viveva da sola e ogni settimana andava in chiesa. Nella sua mania era solita fare shopping nei centri commerciali di John Lewis, Marks and Spencer fino a tarda sera. Un'abitudine, o meglio un'ossessione, che le è costata la vita.

Ascoltare, scoprire

«Amare non significa convertire, ma per prima cosa ascoltare, scoprire quest'uomo, questa donna, che appartengono a una civiltà e ad una religione diversa».
Charles de Foucauld

martedì 17 marzo 2009

Tutto dalla vita?!

Bill Apple
di Massimo Gramellini
I figli dell’uomo più ricco del mondo possono avere qualunque cosa dalla vita, tranne le due più diffuse fra i loro coetanei: l’iPod e l’iPhone. Glieli ha vietati papà con una motivazione inoppugnabile: sono prodotti Apple. E’ stata la moglie di Bill Gates a rivelare l’umana debolezza del signor Microsoft. Uno che ha passato l’esistenza a seppellire l’azienda rivale sotto i numeri del suo fatturato, ma non ha mai smesso di invidiarne la creatività. Il rancore di Gates è così profondo che non diminuisce neppure adesso che dall’alto del suo successo potrebbe permettersi di essere magnanimo. Neppure adesso che il signor Apple, Steve Jobs, è alle prese con una malattia grave.
Forse i figli dell’uomo più ricco del mondo possono avere qualunque cosa dalla vita, tranne due, perché il loro padre ha avuto tutto dalla vita tranne la scintilla artistica che invidia a Jobs. Ma sarebbe sbagliato ridurre la questione a una baruffa fra due fuoriclasse diversamente attrezzati. In realtà l’episodio ci colpisce perché ciascuno di noi, nel suo piccolo, ha un Gates o un Jobs con cui si confronta ogni giorno per rovinarsi meglio la vita. Alzi la mano chi nel suo ufficio non ha individuato un personaggio, uno solo, che per qualche ragione, spesso incomprensibile agli altri, egli considera il suo antagonista, soffrendo per i suoi successi anche quando non oscurano minimamente i propri. Una sfida che si trasforma in ossessione, quasi sempre all’insaputa del rivale, il quale starà pensando a tutt’altro: al nemico che si è scelto lui. Siamo una razza masochista, ammettiamolo: da Bill in giù.

Musica protodemenziale (anni '60)

Clem Sacco - Baciami La Vena Varicosa

festa di san Patrizio, patrono d'Irlanda




lunedì 16 marzo 2009

Rilevazione a pelle

Un pizzico qualunquista,
ma non siamo lontani dal vero!

L'amaca
di Michele Serra
L' idea di Dario Franceschini (una tantum sui redditi alti) sarebbe del tutto condivisibile, anzi lo è. Non fosse per un dettaglio che, a pensarci bene, è semplicemente agghiacciante. Il dettaglio è questo: in Italia non è possibile tassare davvero i ricchi, perché i ricchi non sono identificabili. A centinaia di migliaia, non figurano nel novero di quegli "over 120mila euro all' anno" che Franceschini individua come ceto abbiente, e sono un misero, incredibile, beffardo 0,5 per cento degli italiani: circa duecentomila persone. Per avere un'idea di quanto minima sia questa percentuale di "abbienti dichiarati" rispetto a quella reale, basta vivere in una qualunque città italiana (soprattutto del Nord), avere a che fare con professionisti, medici, avvocati, ristoratori, manager, consulenti, mediatori, vecchio e nuovo ceto medio e medio-alto, vedere come vivono, in quali case, con quali consumi e quali automobili, e la quantità di denaro che maneggiano. Due volte su tre io valuto di essere meno benestante di loro, di avere un tenore di vita più sobrio e soprattutto di non essere mai riuscito a mettere un soldo da parte, a differenza di loro. Poi scopro di essere, ufficialmente, molto più ricco. Talmente ricco che pago le tasse anche per loro. Ogni volta che firmo la dichiarazione dei redditi, me li sento alle spalle che fanno il gesto dell' ombrello.

Padre Nostro in aramaico

Obbedienti alla Parola del Vangelo e formati dall'insegnamento di Gesù.

domenica 15 marzo 2009

Winners!!

Celtic vince la Coppa di Scozia!

Sicurezza o solitudine?

I numeri sui citofoni: sicurezza o solitudine?
di mons. Mario Delpini
Avvenire - Milano 7 - 30.11.08
I campanelli e i citofoni sono stati inventati - io credo - per farsi trovare. So la via, il numero, il cognome e mi dico: «Sono di passaggio, faccio un’improvvisata, chi sa come sarà contento il mio amico di rivedermi!». Ma davanti al portone scopri che campanelli e citofoni, servono invece per nascondersi: numeri, sigle, codici. Tutto, eccetto il nome e il cognome. Sono proibite le improvvisate. Se nel palazzo c’è uno studio d’avvocati, un ufficio di consulenza, l’ambulatorio di un dentista, allora trovi in evidenza il nome sul campanello e sei guidato passo passo fin davanti allo sguardo sorridente di una segretaria: guai a perdere un cliente. E un amico che viene senza preavviso? Beh, se non ha il cellulare, passerà un’altra volta. E il prete che passa per la benedizione di Natale? Suona a tutti i campanelli, finché qualcuno risponde, apre, invita a entrare. «Buona sera, signor Rossi». «No, guardi, io sono il signor Bianchi. È rimasto il nome dell’inquilino di prima. Perché poi cambiare?». Il prete vorrebbe chiamare ciascuno per nome, a imitazione del Buon Pastore, ma sembra che la gente si senta più sicura nell’anonimato. Ma si deve dire «sicurezza» o piuttosto «solitudine»?