sabato 22 novembre 2008

Neffa - "Cambierà"

Un brano che mi piace sempre,
con la speranza che qualcosa cambi!

40 anni dopo

Oggi, esattamente 40 anni dopo il sottoscritto,
è nato questo bambino.
C'è futuro per il mondo!

venerdì 21 novembre 2008

Falsità (s)vestita

Il calendario metaforico
di Massimo Gramellini
Dopo le guerre, le tette restano la passione di cui i maschi si vergognano di più. Quando vogliono fare una guerra dicono di voler esportare la democrazia. E quando vogliono mostrare una tetta dicono che è una metafora della crisi o un messaggio di attenzione dell’uomo verso la natura, per usare le parole con cui Tronchetti Provera ha illustrato a Berlino il nuovo calendario Pirelli, dove modelle nude si rotolano nella savana e dondolano appese alle zanne di un elefante.
Non mi sfugge l’importanza del superfluo, purché non sia trucido, e in questo caso non lo è, trattandosi di foto d’autore. Ma trovo stucchevole la necessità, comune a molti, di rivestire le tette di nobili intenzioni, attribuendo loro significati simbolici. L’unico riferimento alla crisi che intravedo nelle modelle del calendario è la loro sconfortante magrezza. Quanto alle altre metafore, fra zanne e proboscidi me ne vengono in mente solo di ridicole o volgari, invece sento dire che quelle donne discinte e quegli elefanti esterrefatti sarebbero lì per lanciare un allarme in difesa dell’ambiente. La difesa dell’ambiente è l’ultima sottoveste alla moda con cui si coprono tutte le vergogne: fra un po’ la useranno persino i petrolieri. Io mi accontenterei di lanciare un allarme in difesa del linguaggio: «Abbiamo realizzato un calendario di tette d’artista perché agli acquirenti piacciono le tette e il particolare che siano d’artista consente loro di appenderle alla parete senza morire d’imbarazzo». Che mondo sarebbe il mondo, se fosse così sincero. Una metafora del paradiso.

giovedì 20 novembre 2008

Battaglie di condominio

Due milioni di cause per sei miliardi di euro. Sei italiani su cento sono in lite col vicino
Spesi tre miliardi di euro l'anno. Schiamazzi e rumori notturni principale causa di litigio
Condominio, carissimo nemico. Cronaca di una battaglia quotidiana
Quel tac-tac degli zoccoli alle cinque del mattino. Quel parcheggio usurpato nel cortile. Quel cane che non smette di abbaiare. Quell'odore di broccoli che invade le scale. Quel maleducato che lascia aperto il portone. Quel principiante che strimpella "Per Elisa" all'infinito. Quei bambini che schiamazzano. Quelle cicche che piovono sul prato.
Altro che casa, dolce casa: da quando l'italiano è diventato un condomino, la sua vita quotidiana è tormentata, oppressa e inacidita dalle battaglie rancorose e sorde che si nascondono sotto l'ipocrisia del buongiorno-e-buonasera davanti all'ascensore, da quelle beghe tra vicini di casa che cominciano con una telefonata all'amministratore, esplodono nell'assemblea del palazzo e finiscono con gli insulti in tribunale, sul più affollato terreno di scontro di questo terzo millennio: la trincea del condominio.
Sei italiani su cento sono in causa col vicino. Due milioni di processi, la metà esatta di tutto il contenzioso che invade le affollate aule dei giudici di pace. Tre miliardi di euro spesi ogni anno per le liti condominiali, che qualche volta trascendono e finiscono in tragedia: il 3,5 per cento dei delitti, rivela un rapporto Eures, matura nei rapporti di vicinato.
Chiunque si sia trovato a vivere in un appartamento anche solo per una stagione sa bene che una scala può diventare un campo minato, un pianerottolo può trasformarsi nel ring dei dispetti quotidiani, un androne può mutarsi nel teatro di un dramma. Micro-conflittualità di caseggiato, la chiamano i sociologi. E sbagliano, perché non è micro per niente.
Non solo perché c'è chi arriva a uccidere, per un cane che abbaia o per un rumore di tacchi - quelli che dopo il delitto i carabinieri catalogano immancabilmente come "futili motivi" - ma perché il rancoroso litigio tra condomini è all'origine di una valanga di cause civili e di processi penali.
Ma qual è la scintilla che accende lo scontro? Nella classifica dei litigi - compilata dai 13 mila amministratori di condominio dell'Anammi - al primo posto ci sono i rumori che rubano il sonno: mobili spostati alle due di notte, subwoofer che fanno tremare i muri, cagnette che latrano e lavatrici che centrifugano. A Roma, per esempio, un condomino ha denunciato il vicino per rumori molesti perché "tirava ripetutamente lo sciacquone nelle ore notturne, nonostante fosse stato debitamente avvertito che il rumore dello scarico svegliava la famiglia del piano sottostante".
Poi vengono le contese sull'uso degli spazi comuni, che ormai rappresentano per il genere umano quello che per i gatti sono le zuffe per il dominio del territorio. Che diritto ha l'inquilino del terzo piano di parcheggiare il suo furgone al centro del cortile? Perché la signora dell'attico ha piazzato una scala a chiocciola per arrivare al terrazzo condominiale? Come si è permesso il ragioniere del pianterreno di piantare un albero nel giardino comune?
Al terzo posto, i rumori nelle aree condominiali: bimbi che tirano il pallone contro la saracinesca, meccanici che sgasano motori rombanti, portieri che tagliano l'erba alle sei del mattino, magazzinieri che scaricano le bombole del gas. Qualche anno fa il nuovo proprietario di un appartamento all'ultimo piano scoprì che gli altri condomini avevano piazzato le loro autoclavi proprio sopra la sua camera da letto, e dunque il suo sonno era fatto di brevi pause tra il botto di una pompa e quello di un'altra. Andò dall'amministratore, andò dai vigili, andò dal pretore, andò persino in tv (alla trasmissione "Mi manda Lubrano"), ma sempre con lo stesso risultato: zero.
L'acqua che piove dal balcone del piano di sopra è al quarto posto: una volta quello che nei regolamenti condominiali è chiamato "stillicidio" prendeva la forma dei panni che gocciolavano o del filo d'acqua che scendeva giù dai vasi appena innaffiati.
Oggi, purtroppo, l'avvento degli irrigatori automatici ha aperto un nuovo fronte: c'è chi è convinto di avere un diritto naturale a lasciarli aperti a manetta per tutta la notte, e non prende neanche in considerazione le proteste della signora del piano di sotto che si ritrova il balcone allagato e il muschio sulle pareti.
Al quinto posto, il braccio di ferro sugli animali domestici. Il pastore tedesco che lascia le sue impronte sull'ascensore, il randagio che fa la pipì sulle macchine posteggiate, il dobermann che scende sempre le scale senza museruola, la gattina adottata dal condominio che fa paura alla signora del quarto piano, per non parlare del rottweiler del colonnello che ha sbranato il chiuhaua della professoressa. L'anno scorso, un ingegnere portò al magistrato le foto della sua auto, il cui parafango era stato addentato - e deformato - dai denti di un pitbull (nulla potè però la giustizia, perché l'animale si era nel frattempo dato alla latitanza).
Tutto questo senza entrare nel contenzioso che tocca il portafogli: il distacco dalla caldaia condominiale, l'errore nella tabella millesimale, l'annullamento dell'assemblea che deliberò il rinnovo della facciata, la contestazione delle quote per l'acqua e via impugnando. Si arriva, dicevamo, a due milioni di cause.
Questo fiume livido e aspro di dispetti e di ritorsioni sfocia nelle aule di tribunale occupando la metà dei giudizi civili e un bel numero di processi penali. A Roma c'è un'intera sezione del Tribunale (la quinta) che si occupa solo di contenzioso condominiale. È al terzo piano del palazzo di viale Giulio Cesare, una lunghissima serie di stanze disadorne nelle quali un magistrato dà retta, di solito, a cinque o sei avvocati contemporaneamente, sommerso da una montagna di citazioni, notifiche, memorie e comparse che dopo tre anni di udienze costeranno ai litiganti in media dai due ai tremila euro ciascuno.
Ma il grosso delle contese approda sulle scrivanie dei giudici di pace. Quelli civili affrontano le questioni che si risolvono col denaro, in maggioranza tra condomini e amministratori. Quelli penali devono invece dipanare le matasse più complicate, uno spinoso groviglio di antichi torti e di quotidiane vendette che invoca giustizia per ingiurie, molestie, danneggiamenti e disturbo della quiete.
Ma ci riescono davvero, poi? "Noi dobbiamo emettere una sentenza - ammette Osvaldo Jacobelli, giudice di pace della sezione penale - ma è molto difficile che la giustizia riesca a risolvere il problema pratico che assilla il querelante, dal ticchettio dei tacchi allo sciacquone notturno". Certo, se sono volati gli insulti le cose cambiano.
"Intanto però ci vogliono dei testimoni - spiega Francesco Malpica, anche lui giudice di pace - altrimenti è la tua parola contro la mia. E poi i rapporti sociali si sono così imbarbariti che le parolacce sono diventate un fatto ordinario, al punto che la stessa Cassazione ha stabilito che non offendono più il decoro e l'onore del destinatario. La verità è che nelle cause di condominio affiorano tutte le frustrazioni dell'essere umano: ci vorrebbe uno psicologo, accanto al giudice". Conferma Roberta Odoardi, direttore generale dell'Anammi: "Una volta i vicini erano degli amici. Oggi sono degli sconosciuti, verso i quali prevale spesso l'intolleranza. Prima si citofonava, adesso si va direttamente dall'avvocato".
I magistrati, comunque, vedono solo la cima di un albero assai più grande di quanto non dicano le statistiche del ministero. Secondo l'Anaci (un'altra associazione di amministratori immobiliari) il 73 per cento dei contrasti si risolve infatti bonariamente prima di finire sulla carta bollata, durante le assemblee condominiali. Dunque, quei due milioni di cause sono solo un quarto delle liti. E di questo 27 per cento, quelle che arrivano alla sentenza sono appena due su cinque, perché le altre tre si chiudono dopo le prime udienze con un accordo tra gli avvocati.
I quali si dividono in due categorie: quelli che gettano benzina sull'ira infuocata del cliente, pensando alla parcella che gli spediranno, e quelli che onestamente gli dicono la verità, avvertendolo che sarà molto, molto difficile ottenere un risultato concreto. "A chi si lamenta del cane del vicino, io dico che in 32 anni di carriera non ho mai letto una sentenza di sfratto per un cane" racconta l'avvocato Stefano Giove. "Certo, a volte la causa è inevitabile - prosegue - Ma chi la avvia deve sapere che i nostri giudici non sono come quelli americani, che possono ingiungere al condannato una concretissima soluzione. In Italia si intrecciano norme lacunose, limiti procedurali e giudizi lunghissimi, fino a otto anni, durante i quali le liti con l'altro condomino si fanno spesso ancora più aspre".
Sulla trincea del condominio, dunque, lo Stato non riesce nemmeno a decretare chi vince e chi perde. Servirebbero un codice speciale, processi lampo e nuovi poteri per i giudici. Ma né l'uno né l'altro sono all'ordine del giorno di questo Parlamento, indizio non minore di quanto poco sappiano i nostri legislatori delle angosce quotidiane degli italiani. Per i quali, una volta varcato il cancello condominiale, vale ancora una sola regola: la legge del più forte.

"Quando sarò capace di amare"?

Sulla soglia dei quarant'anni la domanda non solo è lecita... è d'obbligo!

mercoledì 19 novembre 2008

Reality irreale

Le false difficoltà sull'Isola sfaticata
La cassa integrazione contro la cassa di risonanza
di Aldo Grasso
La visione parallela dell'Infedele di Gad Lerner (La 7, lunedì, ore 21.20) e dell'Isola dei famosi (Raidue, lunedì, ore 21.10) crea singolari integrazioni di senso. Da una parte, si parla di ristrettezze, di miseria, di recessione, di ammortizzatori sociali, di crisi che colpisce i più deboli; dall'altra, di meschine congiure, di brutto tempo, di presunti tradimenti e passioni che sfioriscono, di crisi che fanno fuori i più deboli e premiano i più forti. Da una parte gli esperti, dall'altra gli opinionisti («A lavorare!», verrebbe da gridare a Luca Giurato).
L'infedele è al passo coi tempi, ne subisce il clima infausto. L'isola non collima con il disastro economico che ci è piombato addosso, è pura invenzione, nonostante si chiami reality. I format sulla sopravvivenza sono ancora figli di una società del benessere, neghittosa, opulenta, sfaticata che, a un certo punto, sente il bisogno di crearsi artificialmente alcune difficoltà: gli sport estremi, i viaggi in terre pericolose, i giochi sull'indigenza, il survivor .
Niente di peggio dei falsi moralismi, ma è curioso che da una parte si parli di lavoro nero, di sfruttamento, di sbarco dei clandestini e, dall'altra, la contessa De Blanck, mentre tenta di rassettarsi, dica: «Sembro una profuga». Sfasamento, appunto: bisogni reali contro bisogni artefatti.
All'Infedele ci si chiede con una certa angoscia «Chi aiuterà i nuovi disoccupati?» e, nello stesso istante, all'Isola si fa in modo che personaggi tv di non eccelsa levatura finiti nel cono d'ombra possano ancora godere delle luci della ribalta.
La gente, quella che nelle frettolose votazioni della penultima puntata, Simona Ventura chiama «il popolo sovrano», premia naturalmente L'isola, così come al cinema premia la coppia Boldi-Ventura. Premia cioè la sfasatura, l'urgenza che almeno la finzione racconti una favola meno triste della realtà. Necessità del dolce inganno.

Attesa


Avvento
Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch'era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. Era accaduto ad altre donne ebree, a Sara per esempio.
Solo le donne, le madri, sanno cos'è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l'aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma per mancanza di tenuta: neanche durante le febbri malariche mi veniva di ricorrere al repertorio delle immaginazioni di guarire, di stare in attesa di.
Nei risvegli mattutini scorrendo Isaia leggo: "Lieti quelli che aspettano lui» (Is 30,18). Non ho conosciuto questa saggia e fisica letizia. Ma più forte di questa notizia, nello stesso verso è scritto: «Perciò aspetterà Iod/Dio di farvi misericordia». C'è un'attesa prima, che spetta a Dio e ha lo stesso verbo ebraico hacchè. Nella sua riduzione al formato della specie umana, il Suo tempo infinito si contrae nel finito di un'attesa. Dio aspetta: «Per farvi misericordia». Il tempo di Avvento sta a imitazione di, sta dirimpetto all'eternità di un Dio che accetta di farsi periodico, irrompendo nel mondo a mesi stabiliti con nascita, morte e risurrezione.
Chi ha in corpo le risorse per concepire attese, conosce dal verso di Isaia l'immensità della corrispondente attesa di Dio.
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva, 13-14

martedì 18 novembre 2008

Morte e vita


E' un po' deludente constatare questo modo di affrontare la morte...
Si vede proprio che il panorama culturale non è molto fecondo.
Quello che dici della tua morte, dice quello che sei nella vita.
don Chisciotte
La «Spoon River» dei viventi illustri
Quarantasette italiani si scrivono la lapide
Andreotti la consegna con un biglietto: «Senza fretta»
Alessandra Mussolini si rifiuta: «Ma io so' napoletana»
Una Spoon River autografa (e apotropaica) in cui 47 italiani illustri si autodettano la lapide. È appena uscita per i tipi dell'editore napoletano Tullio Pironti che ne ha affidato la cura alla giornalista di Raitre Elsa Di Gati e s'intitola «Le penultime parole famose». Nella prefazione, l'antropologo Marino Niola avverte: «Ammettiamolo, oggi la morte è decisamente impopolare, soprattutto la propria».
Nonostante questa verità, la Di Gati è riuscita a estorcere epitaffi a gente dall'umorismo inattaccabile come Giulio Andreotti, Tinto Brass, Leo Gullotta e così via, fino a Marina Ripa di Meana e Maria Scicolone. E scrive: «Che abbia ragione Indro Montanelli - «Non ho paura della morte, ma di morire» - oppure Shakespeare per bocca d'Amleto - «Meglio per te un cattivo epitaffio da morto che averli nemici da vivo» - la sostanza poi non cambia: autocelebrare la propria vita, immaginandosi già nell'aldilà, non è uno sport in cui i personaggi di quest'Italia del terzo millennio eccellano. L'aldiqua ci piace assai, e ci restiamo ottimamente». Così molti hanno rifiutato il gioco della Di Gati dal suo amico meridionale Michele Mirabella - «Dio mio» ha risposto - alla napoletana Alessandra Mussolini che ha addotto come giustificazione al diniego l'origine etnica: «Ma io... so' napoletana». Pure la madre lo è, aggiunge la giornalista, ma si è prestata con un oscuro «Mettetemi con la faccia rivolta contro il muro».
In chiusura dell'introduzione, sportivamente, la Di Gati aggiunge un post scriptum con il suo epitaffio: «Morì sopraffatta dagli scongiuri altrui», e quello, che la dice lunga sull'uomo, dell'editore ed ex boxer Tullio Pironti: «Visse in prospettiva».
Barbara Alberti adotta una chiave patologica: «Invece del manicomio sono diventata una scrittrice...». Giulio Andreotti aggiunge - dietro richiesta della curatrice - anche una bozza per il coccodrillo che inizia dalle origini modeste «Appartenne a famiglia modesta (padre insegnate elementare e nonno venditore di cappelli nel piccolo centro laziale di Segni) e continua fino alla «assoluzione» perché «come tanti altri uomini politici è stato coinvolto in «trappole giudiziarie» che ha affrontato serenamente fino alla conclusione...». Il tutto recapitato alla Di Gati con un biglietto che in realtà si offre come il vero epitaffio di Andreotti: «Senza fretta».
All'estremo opposto - si può dire ancora così? - Fausto Bertinotti cita una frase che ascoltò nel 1964 dal vicesegretario della Cgil Ferdinando Santi: «Sono un uomo di grandi ambizioni. E allora vorrei che un giorno un bracciante del Sud o un operaio del nord di questo Paese, pensando a me, possa dire: 'Fernando? Quello era uno dei nostri'. La penso come lui».
Tinto Brass è laconico e manzoniano: «Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza». Lando Buzzanga fa un inno al dubbio mentre Franco Califano non si rassegna: «Faccio un salto dall'altra parte per accertarmi dell'esistenza di Dio, se è tutto vero mi rifarò "vivo"». Humor consuetamente anglosassone per il giornalista Antonio Capranica: «Giornalista ma onesto. Lasciò il mondo sperando / di trovare / altro da raccontare». Carlo Conti, col sorriso fisso «con il quale ha vissuto» si direbbe: «Vivere è bellissimo, ma ora mi riposo un po'. ps: grazie a tutti». Il più sollevato di tutti è Paolo Villaggio: «Finalmente! Non ne potevo più. Non sono mai stato un depresso, ma la colpa è solo vostra».
Classe teatrale per Massimo Dapporto: «Ultima replica». Romanesca, naturalmente, Alba D'Eusanio: «Finalmente me posso fa' na dormita». Familistico Alain Elkan: «Ho amato la mia famiglia». Giovanni Floris, da buon giornalista scrive un coccodrillo di tutto punto che inizia «Voleva solo riuscire a fare il giornalista». Giuliano Giubilei cita Battiato: «Ne aveva avuto di occasioni... perdendole». Mario Monicelli pugnace e impavido: «Non mi preoccupava la sconfitta se la cusa che difendevo era giusta». Previdente Marina Tagliaferri: «La prossima volta voglio leggere il copione prima...».
Infine Teddy Reno esce di scena con una domanda: «Ma Rita dov'è?».

Insieme anche nella morte


Un gruppo di ricercatori tedeschi l'ha individuata nei pressi di Eulau
La prima famiglia della storia: sepolta 4600 anni fa
Padre e madre nella tomba con i due figli: tutti vittime di un'aggressione da parte di un'altra comunità
Sono stati studiati i resti del più antico nucleo familiare mai scoperto finora. La famiglia, composta da una donna dall'età fra i 35 e i 50 anni, un uomo fra i 40 e 60, e due bambini di circa cinque e nove anni, è vissuta 4.600 anni fa, nei pressi del fiume Saal vicino ad Eulau, in Germania, insieme con altri nove individui sepolti nelle vicinanze. Sono stati vittime di una aggressione violenta e chi li ha trovati li ha sepolti con molta cura: la mamma di fronte a un figlio e il papà di fronte all'altro rannicchiando i corpi e sistemandoli in modo che si guardassero l'un l'altro.
A fare luce su età, parentela e luoghi dove sono cresciute queste persone è uno studio pubblicato sulla rivista dell'Accademia Americana delle Scienze, Pnas da un gruppo di ricerca coordinato dall'Università tedesca Johannes Gutenberg- Mainz. La ricerca ha ricostruito la tragedia dell'età della pietra con tecniche genetiche, isotopiche, antropologiche e archeologiche. I dati emersi evidenziano che tutti e 13 gli individui sepolti sono stati vittime di un'aggressione fatale perché mostrano segni di lesioni. In particolare, nella vertebra di una donna è stato trovato un proiettile di pietra e due adulti hanno il cranio fratturato. Molte vittime, inoltre, hanno anche ferite da difesa alle ossa degli avambracci e delle mani. Secondo gli studiosi, queste persone avrebbero subito un raid da parte di un'altra comunità, e poi, sono state inumate con molta cura (insolita per il Neolitico) dagli individui superstiti dell'aggressione.
Lo studio ha fatto anche luce su aspetti sociologici della comunità di appartenenza. Misurando gli isotopi di stronzio presenti nel cibo intrappolato nei denti, gli scienziati hanno stabilito che le donne sepolte hanno vissuto l'infanzia in un luogo diverso da quello degli uomini e dei bambini. «Questo dato - ha osservato uno degli autori, Alistair Pike, archeologo all'università di Bristol - è indice di esogamia, una regola per cui il coniuge deve essere scelto al di fuori del villaggio di appartenenza e di patrilocalità, un'usanza che impone ad una coppia di andare a vivere nei pressi della casa del padre del marito». Tradizioni, conclude l'esperto, usate per evitare l'incrocio fra consanguinei e per intessere la rete di parentela con altre comunità.

lunedì 17 novembre 2008

Vincere facile?!

Giochi in video: quanto si vince
«E così diventerai milionario»: la grande illusione dei quiz in tv
Undici ore di programmazione, due milioni in palio.
«Ma si crea un divario tra mondo virtuale e realtà»
Si possono vincere computer, viaggi, buoni spesa, batterie di pentole, automobili, perfino autobus. E, naturalmente, tanti, tantissimi soldi. Basta avere un pizzico di fortuna. È la promessa della tv: dei numerosi quiz, concorsi e giochi a premi che affollano i palinsesti delle principali reti nazionali. Ogni giorno, almeno 11 ore di programmazione sono occupate da programmi che fanno sognare vincite facili in grado se non di cambiare la vita di darle almeno una bella mano. Solo Canale 5 mette in palio oltre un milione di euro al giorno. Raiuno più di 800mila. È una gara a chi offre di più, a chi spinge più su l'asticella del «montepremi». Una lampada di Aladino catodica dove non bisogna strofinare ma telefonare: tanto basta perché poi, altrettanto magicamente, «il fortunato telespettatore che ha trovato per primo la linea» si ritrovi nella condizione di vincere potenzialmente qualunque cosa. È la televisione «gratta e vinci».
Una televisione «attraente» ma fortemente «diseducativa» e «pericolosa», almeno secondo uno studio promosso da Comunicazione Perbene, associazione per l'ecologia della comunicazione. Dal 19 al 25 ottobre scorsi sono stati monitorati i palinsesti delle principali reti nazionali (Rai e Mediaset). Quindi, un pool di 100 esperti tra psicologi, psicopedagogisti e sociologi ha analizzato i dati raccolti. Dalle 8 del mattino alle 24, le principali sei reti nazionali su 144 ore di programmazione dedicano oltre 11 ore a programmi che promettono facili vincite, con picchi di giorni in cui si superano le 15 ore. Quotidianamente, la somma di tutti i montepremi supera i 2 milioni di euro. Solo Gerry Scotti, con «Chi vuol essere milionario» mette in palio ogni giorno un milione di euro. Raiuno supera gli 815 mila euro con cinque programmi, dal mattino fino ad «Affari tuoi». Il gioco dei pacchi da solo ha come montepremi 500 mila euro. Quello messo in atto da questa tv sarebbe un vero e proprio «bombardamento» che secondo gli psicologi (69%) può avere effetti «pericolosissimi» sul pubblico. Il 58% degli intervistati annovera questi programmi tra i più diseducativi della tv, colpevoli di creare frustrazione (39%), non promuovere i veri valori (56%) e dare un'immagine falsata della vita reale.
Più a rischio sono gli adolescenti (71%), mentre il fattore più diseducativo è nella sproporzione capacità-vincite (62%). «La tv rappresenta il media più potente, questo comporta una responsabilità che spesso il piccolo schermo dimentica, ovvero promuovere messaggi educativi - sottolinea Saro Trovato, presidente di Comunicazione Perbene -. Oggi basta accendere la tv per assistere a programmi che regalano cifre esorbitanti». Rispetto al passato, il cambiamento starebbe proprio nella frequenza di questo tipo di trasmissioni (41%): si è persa l'eccezionalità dell'evento, così come era ai tempi dei grandi quiz di Mike Bongiorno. Ora la percezione diffusa è che la dea bendata si sia fatta molto meno schizzinosa, ormai pronta a baciare chiunque e in ogni momento. A riprova, una rapida scorsa del palinsesto. È un fiorire di programmi con montepremi milionari: su Raiuno in «Carràmba che fortuna», Raffaella Carrà promettere vincite fino 750mila euro (oltre agli altri 800mila offerti quotidianamente dalla rete); Enrico Papi su Italia 1 ne «regala» 100mila, basta girare la ruota della fortuna e incrociare le dita.
C'è poi «Paperissima» che, su Canale 5, mette in palio 100mila euro per chi ha avuto la fortuna di girare un filmato divertente, o ancora «Mattino in Famiglia » che, su Raidue, offre qualche centinaia di euro per risolvere un cruciverba e «Mezzogiorno in Famiglia» che fa «sfidare » i diversi comuni italiani per vincere un pullman (dal valore di circa 150mila euro). E ancora, lo zaino a pannelli solari di «Geo & Geo», la batteria di pentole de «La prova del cuoco», il carrello di libri di «Per un pugno di libri», i buoni spesa di «Occhio alla spesa», i chilometri di viaggio di «Alle Falde del Kilimangiaro». Gli esempi sono moltissimi. Ed è così che - escludendo i reality che pure promettono importanti vincite semplicemente «votando» («La Talpa» di Italia 1, ad esempio, mette in palio 200mila euro) - la tv ogni settimana fa segnare un montepremi totale di oltre 15 milioni di euro: più due milioni di euro messi in palio al giorno, 84.272 euro ogni ora, 1.404 euro ogni minuto, 23 ogni secondo. Cifre che, in tempo di crisi, inevitabilmente ingolosiscono ancora di più. Non c'è da stupirsi dunque se esiste chi dell'inseguire la fortuna in tv ha fatto un'arte. O meglio, un mestiere. (...)

Ancora realtà virtuale

Corna secondarie
di Massimo Gramellini
Quando ho letto che una donna inglese aveva divorziato dal marito dopo averlo trovato abbracciato a un’altra su un sofà di Second Life, ho pensato quel che adesso starà pensando la maggioranza di voi: cosa diavolo è Second Life e soprattutto chi se ne importa. Poi ho visto le foto dei due sposi - obesi, grifagni, con gli occhi rossi di rabbia svogliata - e le foto dei loro «avatar», cioè degli alter ego con cui si aggirano su uno dei tanti siti che consentono di vivere altre esistenze o di offrire al giudizio del prossimo una versione ritoccata e ideale della propria.
Le icone erano bellissime: lui si era calato nei panni di un nero fascinoso col pizzetto e gli occhiali a specchio, lei in quelli di una bruna dagli occhi di cerbiatto. Ho immaginato la tristezza delle loro «prime» vite, trascorse in stanze attigue a smanettare sulla tastiera del computer, fingendosi qualcuno di meglio e di diverso, in una sorta di chirurgia plastica della coscienza. E ho pensato a quanti milioni di persone hanno ormai trasformato il passatempo di una sera in una dipendenza, al punto da investire più emozioni nella vita finta che in quella vera. Nella vita finta si è sempre belli ed eleganti, nessuno deve lavorare su se stesso per migliorarsi, né piegare la schiena sotto il peso delle responsabilità. Ogni tanto però c’è un cortocircuito. La vita finta invade la vera, creando dalle viscere dei sogni un evento mitico come l’elezione di Obama. Ma più spesso è la vita vera che invade la finta e dà lavoro agli avvocati, non riuscendo più a darlo agli psicologi.

domenica 16 novembre 2008

Dipendenze contemporanee

Sesso, amicizia e insoddisfazione, l'identikit di chi è sempre online
Facebookmania fra i 30-40enni
Esplodono le iscrizioni anche in Italia. Ma gli psicologi avvertono: «Attenzione a illudersi»
Un clic e si diventa amici, si ritrovano ex compagni di scuola, oppure antiche fiamme. E sui comincia a condividere pezzi di vita, foto e video. Per senitrsi meno soli. E' la Facebookmania, una passione in rapido aumento anche in Italia: gli ultimi dati parlano di 1 milione 369 mila utenti italiani (su 132 milioni nel mondo), con un incremento di visitatori del 961% in un anno ( del +135% degli iscritti). «E' una febbre che contagiato in particolare la fascia tra i 30 e i 40 anni, e non a caso: questo mondo virtuale è infatti vissuto come un antidoto al senso di vuoto e alla solitudine, che in questa fase della vita, fitta di bilanci, contagia anche i cosiddetti vincenti» commenta Paola Vinciguerra, presidente di Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) e direttore dell'Uiap (Unità operativa attacchi di panico) alla Clinica Paideia di Roma.
Se infatti il sito è nato richiamandosi - anche nel nome - agli album fotografici che le università americane pubblicano a inizio anno accademico per ritrovare amici perduti, oggi i nostalgici a caccia degli ex compagni di classe sono solo uno dei tanti profili dei facebook-maniaci: ci sono i «troppo soli», gli insoddisfatti, quelli con l'alter ego, quelli che lo fanno per farsi pubblicità, i cuori infranti e, naturalmente, i latin lover virtuali. (...) A 30-40 anni, che gli obiettivi che c'eravamo posti siano stati raggiunti o meno, si fa strada un senso di vuoto, perchè più che l'essere abbiamo curato l'apparire».
Così finiamo per ricercare quelli che sono sentiti come «rapporti veri: i compagni di scuola, gli amici di tante estati al mare, i ragazzi del cortile. Quelli a cui davamo e ricevevamo sostegno e comprensione sinceri. Oggi nel mondo reale recitiamo un po' tutti - avverte la Vinciguerra - ma in passato non era così». «Facebook permette a tante persone di pensare di essere importanti, solo perchè hanno decine e decine di amici virtualì, ma purtroppo si tratta spesso solo di una colossale illusione», sostiene Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta, docente di psichiatria dell'Università Gregoriana di Roma, e fra i primi a occuparsi del problema delle tecno-dipendenze in Italia. «Occhio però, perchè dimenticano che resterà per sempre traccia sul web del cumulo di menzogne o banalità narcisistiche che si immette nella rete», avverte Cantelmi. E spesso le menzogne vengono al pettine, come è già accaduto nel caso di coppie in cui uno dei due si presenta single sul sito, e l'altro lo scopre. «Si è disperatamente in cerca di una realtà diversa, anche sentimentalmente, così si altera la verità», dice la Vinciguerra.
Ecco, secondo gli esperti, l'identikit dei popolo di Internet contagiato dalla Facebookmania.
1) I nostalgici: Si emozionano alla vista delle foto dei compagni di classe delle medie o del liceo. Cercano gli amici del passato per vedere come sono invecchiati, e commentano i bei tempi andati. Una nostalgia per i vecchi tempi che, di fatto, è un rimpianto per i rapporti veri e perduti, per un'infanzia e un'adolescenza ormai lontana e mitizzata.
2) I latin lover virtuali : Dichiaratamente a caccia di nuovi potenziali partner, ma anche di ex piacenti e disponibili. Spesso celano una relazione (se l'hanno) e rimpinzano il proprio profilo e gli album con foto sexy o interessanti, a volte ritoccate. In genere accumulano decine e decine di amici dell'altro sesso, con i quali fanno i misteriosi. «Ma alla fine si tratta di persone sole o profondamente infelici con il partner, che ricorrono a cumuli di banalità narcisistiche per rendersi interessanti», spiega Cantelmi.
3) I cuori infranti: Prostrati dall'ultima relazione, in corso o finita, sono a caccia degli antichi amori, mitizzano i ricordi. Hanno l'impressione di essersi persi per strada qualcosa di vero. «In questo caso l'insoddisfazione e la solitudine vanno a braccetto - spiega la Vinciguerra - e si cerca di darsi un'altra chance» grazie alla rete.
4)Gli insoddisfatti: Infelici anche se hanno una famiglia e dei figli, spesso sono donne. Non trovano spazio per il sogno, il romanticismo e quel pizzico di avventura, che finiscono per cercare su Facebook.
5) Quelli della pubblicità: Sono più o meno famosi, politici, campioni dello sport, attori. Ricorrono a Facebook in modo strumentale, per farsi mega-spot gratuiti.
6) Quelli con l'ater ego: Dai 400 burloni che si sono presentati nei panni del calciatore Francesco Totti, ai tanti Giulio Cesare o Maria Antonietta, a quelli che pubblicano foto diverse o ritoccano la descrizione vantando titoli ed esperienze di fantasia. Soli e in cerca di contatti, si mettono una maschera per ottenere attenzioni e credibilità nel mondo virtuale.