sabato 2 agosto 2008

Storie di mare

30/7/2008

l pesciolino torturato

di Massimo Gramellini

Da quando ho letto la denuncia di una lettrice su «Specchio dei tempi», non riesco a togliermi dalla testa la scena di quei baldi ventenni che, in spiaggia a Varigotti, hanno torturato un pesciolino vivo, strizzandolo di mano in mano, sbattendogli la coda sugli scogli e infine usandolo come palla da tennis per i loro racchettoni. Non mi sorprende il sadismo. E nemmeno la faccia tosta con cui hanno replicato alle rimostranze della lettrice: «Ci stiamo divertendo». Ciò che fatico a mandare giù è l’atrofia delle emozioni che impedisce ormai a troppe persone di mettersi nei panni di un altro, di chiunque altro, persino di un altro particolarmente piccolo e inerme come un pesciolino. Chiedersi che cosa prova l’innamorato che stiamo ingannando, il bambino che stiamo trascurando, il sottoposto che stiamo umiliando, l’animale, la foglia o la pietra su cui stiamo infierendo.

Si tratta di un esercizio di ginnastica dell’anima che un tempo veniva insegnato fin dalla tenera età. Serviva a renderti un po’ meno irresponsabile dei tuoi atti. Ma soprattutto a farti sentire parte di qualcosa di più ampio delle tue paturnie individuali. Parte di una comunità, di una nazione, del creato. Invece questo solipsismo menefreghista spacciato per libertà ci ha ridotti a un balletto isterico di particelle staccate, perse dietro le proprie rivendicazioni personali, ma incapaci di prendere anche solo in considerazione quelle del prossimo. Ciascuno sfoga la sua irrilevanza torturando i pesciolini che può. E ciascuno è a sua volta il pesciolino di qualcun altro.

1/8/2008

La stella marina

di Massimo Gramellini

Per bilanciare il mal di stomaco dell’altro ieri, quando riportavo da «Specchio dei tempi» la storia di quei sensibiloni che sulla spiaggia di Varigotti giocavano a racchettoni usando come palla un pesciolino vivo, ecco la testimonianza refrigerante di un’altra lettrice, che sul litorale delle sue vacanze ha sorpreso due ragazze del posto con una stella marina fra le mani. Avvicinatasi per assicurarsi delle loro intenzioni riguardo alla creatura indifesa, non è stata presa a sberle e neppure a male parole. Le indigene hanno cominciato col chiamarla «Signora», un appellativo che l’ha piacevolmente spiazzata, e hanno finito per esibirsi in amorevoli considerazioni sulla bellezza della stella marina, che qualche istante dopo è stata ricollocata in acqua con tutte le precauzioni del caso. A poca distanza, scrive la lettrice, le madri delle due ragazze erano dedite a leggere fiabe ai figli più piccoli.

Forse dovremmo smetterla col pessimismo a buon mercato. Non è vero che tutto è perduto. Ci sono ancora delle adolescenti che rispondono con educazione agli estranei e che si incantano nel contemplare una stella marina. E ci sono ancora delle madri che usano le favole per allenare il muscolo della fantasia, anziché affidare ai videogiochi portatili il compito di sterilizzarlo.

L’unica ombra, a voler essere proprio pignoli, è che tutto questo è successo in Irlanda.

giovedì 31 luglio 2008

s.Ignazio di Loyola

Prendi, Signore,
e accetta tutta la mia libertà,
la mia memoria, il mio intelletto,
e tutta la mia volontà,
tutto ciò che ho e possiedo;
tu mi hai dato tutte queste cose,
a te, Signore, le restituisco;
sono tutte tue,
disponine secondo la tua volontà.
Dammi il tuo amore e la tua grazia,
queste sole, mi bastano.
s. Ignazio di Loyola

mercoledì 30 luglio 2008

Blog e nuove forme di comunicazione


Al di là dei toni un po' troppo entusiastici, credo che l'argomento meriti attenzione. Specialmente per chi rischia di perdere sul serio la capacità di comunicare con l'oggi.

Più che un sistema di comunicazione, rivela spazi collettivi in una società che li ha ridotti

Un po' circolo, un po' palcoscenico, un po' piazza, un po' sezione di partito
Villaggio blog, vista sul mondo: le nuove forme di dialogo
di Marino Niola
Villaggio blog, vista sul mondo le nuove forme di dialogo
"Dovessi spiegarti che cos'è il mio blog ti direi che è un luogo, riscaldato d'inverno ed areato d'estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L'insieme dei blog che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso". Parola di blogger.
È evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi, costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati - ma prima ancora creati - e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.
Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete - il termine è la contrazione di web e di log che significa appunto diario ma anche traccia - sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni.
Qualcuno li considera un po' come la versione immateriale dello Speaker's Corner, letteralmente angolo dell'oratore, di Hyde Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta di legno a mo' di palco e predicare sul mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico, una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle condivisioni, dai luoghi tradizionali - territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni - agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente.
Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po' circolo, un po' palcoscenico, un po' salotto, un po' sezione di partito, un po' piazza, un po' caffè. I diari in rete rappresentano modi diversi di sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica, residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.
Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito d'oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, di mostrarci con estrema lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo. Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili, convenzionali.
E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in questione il fondamento primo, ovvero l'idea di confine naturale, in favore di quella di confine digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della classe d'età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.
Comunità senza luogo? Niente affatto. È la vecchia nozione di luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del luogo e della persona. Un'idea che ha l'immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno materializzate, ma non per questo scompaiono.
La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella spaziale se è vero che oggi l'iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono luoghi all'ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di collegamenti tra bande larghe di umanità. È questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell'essere: dal to be al to google e, sopratutto, al to blog.
Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. È la terra promessa degli homeless digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffè. Altro che fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura d'uomo in un download.
Frequentare i blog serve, fra l'altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della digitalizzazione della realtà e sull'apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura, tramonto dell'italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a riconoscere l'intelligenza del presente.
A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l'estetizzazione della comunicazione hanno spesso un ruolo fondamentale. "Qui sul blog è tutta un'altra cosa. Scrivo in modo molto diverso da come scriverei su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro, e i pensieri pubblicati sono molto più profondi".
Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell'autorità. Dove ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d'interlocuzione. È la nuova utopia della libertà e dell'eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne e ossa.
(29 luglio 2008) vai all'articolo

martedì 29 luglio 2008

Chinare il capo


«"Chinare il capo". L'immagine fa riferimento al momento della nascita, nel quale il bambino viene al mondo proprio attraverso questo movimento. Nel momento del parto si prepara, si mette in posizione, con la testa in giù, "china il capo", lo flette per incanalarsi e solo così nasce, facendo ad un tempo esperienza di resistenza, sforzo, abbandono... Questa immagine che caratterizza la nascita si ripresenta poi sotto differenti aspetti nell'arco di tutta la vita in cui molte situazioni ci fanno sperimentare la durezza della realtà, la sua "resistenza" che segnala il nostro limite e ci sollecita a prendere posizione, a riconoscere la nostra misura in relazione ad esso. Impariamo a vivere affrontando la realtà alternando "resistenza e resa" fino all'ultimo atto, quello del morire, che più di ogni altro ha la sembianza del "chinare il capo"».
A. Gaino, Chinare il capo, in Esperienza e Teologia, 17 (2003), p. 5

lunedì 28 luglio 2008

Desideri e pessimismo


"La domanda (di Gesù risorto ai suoi discepoli in Gv 21,5): «Non avete nulla da mangiare?» è un capolavoro di finezza. Gesù non li rimprovera. Avrebbe potuto umiliarli, prenderli in giro, oppure sgridarli perché si erano sbagliati sulla vocazione. Invece non fa niente di tutto questo e pone la domanda come un bisogno: «Avrei bisogno di qualche cosa per me». Gesù, con estrema delicatezza, fa emergere la nullità del loro lavoro, mettendosi però un po' dalla loro parte.
È così che Gesù fa con i nostri desideri, non con quelli che sono già di per sé condannabili, evidentemente negativi, ma con tutta quella massa di desideri, in parte buoni e in parte ambigui, che ci muovono, che riguardano la vita, il lavoro, la sistemazione, lo studio, il successo, le relazioni, le amicizie, il trovarsi bene nella comunità, nel gruppo, il fare un certo cammino nella vita.
Gesù non ci prende a pugni nello stomaco, ma ci prende per la mano: «Forse potresti aiutare anche me, con questa tua massa di desideri, potremo lavorare insieme». Gesù ci dà coraggio, stimola, provoca la tensione verso il bene.
«Gettate e troverete». È una parola sicura: fa capire che se accettiamo che entri anche lui nella nostra ottica e ce la trasformi, ci andrà bene anche umanamente. Gesù vuole che facciamo una pesca fruttuosa, ma vuole che la facciamo la­sciando che lui entri nella nostra ottica e la rettifichi.
Domandiamoci un po' cosa avrebbe fatto invece il diavolo se fosse apparso nella stessa mattina, nella penombra sulla spiaggia? Cosa avrebbe detto? Certamente li avrebbe rimproverati e derisi, perché l'azione del nemico di Dio è di spe­gnere i desideri, di accusarci, di smorzare tutto ciò che di buono c'è in noi. E ciò avviene quando lasciamo che questa voce negativa operi in noi. Abbiamo dentro di noi quello che la Bibbia chiama l'"accusatore" (Satana è il termine ebraico che traduciamo accusatore). E dobbiamo saperlo riconosce­re, perché è accanito contro di noi. Sempre ci fa vedere i no­stri lati negativi, i nostri sbagli e le nostre incapacità.
La parola di incoraggiamento di Gesù è invece piena di significato perché ripete il tono di altre parole del Vangelo: voi ricordate il «bussate e vi sarà aperto», «cercate e troverete», «chiedete e otterrete», «a chi bussa è aperto», «chi cerca trova». È la pazienza, la perseveranza che Gesù raccomanda: di non dare fiato né in noi, né nelle nostre comunità, né nel gruppo alle voci di disfattismo e di pessimismo, che sono voci del nemico".
Carlo Maria Martini, "E' il Signore!"

domenica 27 luglio 2008

Sprechi


Fronde di Polizia
di Massimo Gramellini
Cosa pensereste se vi dicessero che la Polizia ha rinnovato il guardaroba dei suoi ragazzi, dotandoli di nuove camicie e nuovi cinturoni? Forse che con quei soldi avrebbe fatto meglio a innaffiare le loro buste-paga. Ma se in sovrappiù vi svelassero che quelle camicie e quei cinturoni giacciono inservibili dentro i cassetti delle questure perché nel frattempo, all’insaputa del sarto, la Polizia ha deciso di cambiare il proprio stemma? Quello antico, ancora presente nelle divise appena sfornate, era contornato da due fronde di quercia e alloro che nel nuovo sono state tagliate.
Ammettiamolo. Non è semplice fabbricare uno spreco così. Occorrono talenti organizzativi particolari. Un labirinto di riunioni schizofreniche e universi paralleli, dove tutti si parlano addosso e nessuno ascolta. Di qua un ufficio che ordina il disegno del nuovo stemma. Di là un altro che ordina le divise con il vecchio stemma. Senza che, né di qua né di là, ma neanche di sopra o di sotto, ci sia qualcuno che si prenda la briga di segnalare l’incongruenza. Magari un funzionario solerte ci avrà anche provato. Ma sarà stato caldamente invitato a farsi gli stemmi suoi, secondo la regola aurea della burocrazia italiana, che all’articolo 1 recita: «Non è di mia competenza». L’augurio è che qualche persona ancora provvista di senso del ridicolo decida di sottrarre alle tarme le camicie e i cinturoni, restaurando d’imperio il vecchio stemma. A proposito, era proprio indispensabile cambiarlo? Ci avevano detto che il problema dell’ordine pubblico erano le bande e le ronde, non le fronde.
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