venerdì 24 aprile 2009

Natale e 25 aprile

Diverse voci del mondo cristiano si levano scandalizzate quando la Festa religiosa del Natale, Nascita di Cristo, è stravolta, facendola diventare "festa della bontà", "giorno delle dolcezze", "zucchero filato degli affetti pseudo-familiari", "segno della pace", "bambolotto per carezze", "gran vetrina degli acquisti", "nascita di Babbo Natale", ecc. ecc. Orbene, ci siamo lasciati fregare il copyright della data, così come anticamente l'abbiamo soppiantata alla festa del dio Sole.
Ora accade lo stesso per il 25 aprile: da Festa della Liberazione vogliono trasformarla in festa di tutto, affinché ciò che è stato il suo specifico sia sommerso, annacquato, annegato dal resto. Io non lo farei.
Come per la memoria della Nascita di Cristo, preferirei che fosse tolta dal calendario civile e che la "cultura" festeggi "altro" (che non è poi lontano da Cristo, ma è "altro", diverso dalla sua persona), se lo ritiene utile, con l'appoggio simpatico dei credenti in Cristo per quel tanto che lo ritengono degno dell'uomo.
Lo stesso faccia il popolo italiano: se - con saggezza e discernimento (se ne troveranno ancora?!) vorrà far memoria di "altro", lo faccia in altra data, ma tenga giù le mani dagli eventi che, insieme ad altri, fondarono la nostra democrazia.
don Chisciotte

"Risparmio"?

Alzo la mano per una domanda:
se il risparmio è di "soli" 220 milioni di euro,
a quanto ammonta la spesa complessiva
per un vertice del G8?!

Ma ne vale veramente la pena?!
don Chisciotte

Esperienza e memoria

Il segreto del "no" dei bimbi? Fanno scorta di informazioni
I piccoli di tre anni mettono da parte le indicazioni per riassociarle poi alle esperienze dirette. Nulla di ciò che diciamo viene perso ma immagazzinato e utilizzato in un secondo momento
di Sara Ficocelli
Provare per credere: tutte le volte che si dice a un bambino molto piccolo di fare o non fare una cosa, lui (o lei) fa il contrario. La scienza ha però una buona notizia da dare ai genitori dei piccoli testardi. In realtà le vostre parole non passano da un orecchio all'altro senza lasciare traccia, ma vengono "messe da parte" per il futuro. Questa la conclusione cui è giunto uno studio condotto dall'università del Colorado. (...)
Per condurre la ricerca lo psicologo Munakata e colleghi hanno utilizzato un videogioco per l'infanzia e una tecnica conosciuta con il nome di "pupillometria", che misura il diametro della pupilla per determinare lo sforzo cerebrale. (...) "Probabilmente - spiega lo psicologo Maurizio Brasini - si tratta di differenze quantitative che si trasformano in differenze qualitative. Differenze che riguardano la maturazione del sistema nervoso centrale e in particolare della corteccia prefrontale, preposta alla pianificazione delle azioni. Ma anche differenze che riguardano la quantità di esperienze registrate in memoria, e le modalità di accesso ad esse".
La misurazione con il pupillometro ha poi dimostrato che i bambini di 3 anni non riuscivano né a concentrarsi sul futuro né a vivere completamente il presente. Richiamavano però alle mente il passato tutte le volte che il cervello ne aveva bisogno. Il dottor Chatham spiega questo meccanismo con un esempio molto chiaro: "Prendiamo il caso che fuori faccia freddo e tu dica a un bambino molto piccolo di andare a prendere la giacca nella sua camera e preparasi per uscire. A quel punto ti aspetti che egli rifletta sulla situazione e in un certo senso pianifichi il futuro, facendo la cosa più conveniente. Ma non è questo ciò che accade nel suo cervello. Piuttosto, è più facile che corra fuori, si renda conto personalmente di quanto fa freddo e solo a quel punto rientri in casa e ripensi alle parole che voi gli avete detto poco prima, andando a prendere la giacca esattamente dove gli avevate detto voi".
In pratica, nulla di ciò che dicono i genitori si perde, ma tutto viene immagazzinato e riutilizzato dai bambini in un secondo momento, associando le indicazioni ricevute all'esperienza diretta. La scoperta, che uscirà sul prossimo numero della rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, secondo gli studiosi potrebbe aiutare psicologi e pediatri a sviluppare terapie di sostengo a bambini in difficoltà e percorsi educativi modellati in base alle diverse fasi di crescita.
"E' completamente sbagliato pretendere che un bambino ci ascolti semplicemente ripetendo una, due, tre volte lo stesso comando - conclude Munakata - Sarebbe semmai più efficace provare a scatenare in loro una reazione. La cosa migliore è fare in modo che le azioni che vengono chieste non richiedano uno sforzo mentale particolare, ma un confronto pratico con la realtà". Secondo lo psicologo bisogna insomma dire una frase del tipo "So che non vuoi prendere e indossare il tuo cappotto adesso, ma quando tra cinque minuti avrai freddo, ricordati che potrai trovarlo nella tua cameretta". Cinque minuti senza cappotto, specialmente in certe serate d'inverno, possono scatenare un raffreddore. Ma il cammino verso la crescita vale almeno qualche starnuto.

Liberazioni

"Ricordate che in tutti i tempi ci sono stati tiranni e assassini e che per un certo periodo sono sembrati invicibili... ma alla fine, cadono sempre... sempre".
Gandhi

giovedì 23 aprile 2009

Terremoti e miliardi



Come al solito, in caso di emergenza in qualche modo i miliardi si trovano.
A volte tagliando spese superflue, a volte portando via dove già c'è poco.
Ma si trovano. Ne sono felice.
Anche per il concertone si sono trovate...
Però... - sarò senz'altro semplificante - mi domando:
perché non si sono trovati dei miliardi (non le briciole)
- perché la scuola pubblica abbia insegnanti e strutture per salvaguardare il nostro maggiore patrimonio, l'educazione, i figli, il futuro?
- perché chi combatte le mafie (che bloccano una parte considerevole del Paese) abbia uomini e mezzi?
- perché chi promuove cultura, solidarietà, socializzazione, sia riconosciuto e sostenuto?
- perché chi non ha la casa abbia l'opportunità di un'edilizia popolare qualificata?
- perché...

Perché le macerie di un sisma del terreno si vedono
e quelle degli animi e di una società non si vedono?
don Chisciotte

Per riflettere, prima di parlare

Il 25 aprile e la trappola della "memoria condivisa"
di Walter Barberis
E’ ormai frequente, in occasione di anniversari che riconducano a momenti critici e controversi della nostra storia nazionale, sentire il richiamo a una memoria condivisa. Sembrano confondersi, tuttavia, in questo invito istanze diverse, sulle quali vale la pena riflettere. E in primo luogo per una questione assai semplice: che il termine memoria è ambiguo per definizione. Connota il giusto intento di trasmettere alle generazioni più giovani il patrimonio di esperienza di coloro che le hanno precedute. E, generalmente, indica l’esigenza di tenere viva la lezione che si presume ci abbiano lasciato avvenimenti tragici che hanno lacerato la nostra società. Ma la memoria è soggettiva, individuale, e per di più incline a deteriorarsi, a perdersi, a peggiorare. La memoria è il risultato di sguardi particolari, che non possono essere modificati. Certo, si può affermare che esperienze comuni abbiano sedimentato una memoria collettiva. È vero. Ma sarà comunque impossibile conciliare, rendere omogenee, memorie legate a esperienze diverse, derivate da punti di vista e da adesioni personali o di gruppo totalmente differenti. Perché un partigiano dell’Ossola o della Langa dovrebbe rimodellare il suo ricordo per accordarlo con un reduce della Monterosa o della X Mas che gli fu nemico in quei mesi di scontri mortali fra il ’43 e il ’45? O viceversa. E quale memoria potrebbero condividere un italiano del Sud e uno del Nord rispetto a quegli avvenimenti?
Si deve intendere il termine memoria come metafora di qualcos’altro. Ovvero come il terreno su cui far germogliare un processo di riconciliazione nazionale, cioè quell’accordo fra visuali diverse e distanti che permetterebbe di mettere alle spalle il passato: con la concessione ai «vinti» di qualche risarcimento morale e di un conseguente restauro di immagine, e con la richiesta ai «vincitori» di una qualche forma di abiura e di cessione valoriale. Si potrebbe discutere sull’opportunità di una simile operazione; il fatto è che con tutta evidenza non funziona. Perché ogni guerra civile, dalla Rivoluzione Francese in avanti, ha sempre lasciato dietro di sé una scia di recriminazioni, di rese dei conti, di riscritture degli avvenimenti e una molteplicità di memorie differenti e antagoniste. Esattamente com’è successo in Italia.
La questione è ancora attuale, ma nasce nel profondo della nostra civiltà, quando la guerra del Peloponneso scosse la Grecia del V secolo a.C. Perché era successo - si chiesero i contemporanei - che Greci avessero combattuto altri Greci? Tucidide, sulle orme di Erodoto, mise a punto una procedura che pareva soddisfare quella richiesta di spiegazioni: si doveva fare un’inchiesta, to historein, cioè fare storia. Si doveva procedere a una ricostruzione degli avvenimenti capace di rispondere onestamente alle domande di verità; fornire un’interpretazione sorretta da prove certe. Allo stesso modo di un’indagine giudiziaria, o medica. È ancora questo di cui ha bisogno una qualunque comunità: una buona storia, non manipolata a scopi propagandistici, non piegata dallo spirito di parte.
La storia italiana è tutta segnata da elementi di frattura e dagli scontri di fazione. Non a caso il Foscolo, esordiva sulla cattedra di eloquenza all’università di Pavia, nel 1809, con queste parole: «O Italiani, io vi esorto alle storie, poiché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare». E aggiungeva, come rimedio: «Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi fra di voi, ed assumere il coraggio della concordia». Parrebbero parole sensate anche oggi: condividere buoni studi e un’onesta ricostruzione dei fatti potrebbe corroborare la riconciliazione nazionale, dare prospettiva al Paese senza patteggiamenti pelosi su come ricordare il nostro passato.
Sappiamo bene che la Resistenza non ha accomunato gli italiani; è stata un’esperienza di pochi, geograficamente limitata; nonostante la vulgata comunista, non è stata solo una guerra di liberazione dallo straniero tedesco, ma anche e talvolta prevalentemente una guerra civile; non ha visto protagonisti soltanto partigiani comunisti, ma una pluralità di soggetti culturali e politici. E come tutte le guerre civili, ha trascinato dietro di sé uno sciame di vendette, di storie private confuse a storie pubbliche. Ma ha avuto un senso preciso e un ruolo decisivo nella vita nazionale. Ed è di questo che oggi devono ragionare gli italiani, ben oltre le loro memorie personali o familiari; e di là da ogni bisogno di partito. L’Italia che guarda al futuro ha bisogno di una storia condivisa.
Non furono sagge le parole di De Gaulle, quando in omaggio a un impettito nazionalismo, per evitare alla Francia un serio esame di coscienza sul suo passato collaborazionista, nel 1969 disse: «Il nostro Paese non ha bisogno di verità. Ciò che gli occorre è la speranza, un po’ di coesione, uno scopo». Suonano stonati gli echi di quelle parole, quando si è alle prese in Francia come altrove con atteggiamenti razzisti e rigurgiti antisemiti. Abbiamo viceversa un gran bisogno di verità, cioè di una storia plausibile, rigorosa nei suoi metodi di ricerca. E abbiamo bisogno della sua morale. Che in questo caso è assai semplice e può essere tranquillamente condivisa: nella storia mondiale del Novecento, ma si potrebbe dire sempre, la democrazia, per quanto imperfetta, si è rivelata il sistema politico migliore. Chi ha combattuto per la democrazia merita rispetto e gratitudine. Chi ha combattuto per regimi totalitari, in Italia come in Ungheria, in Argentina come in Cambogia, merita una riflessione, talvolta comprensione, ma non una postuma assoluzione.

Millesimo post!

Una piccola nota, con una punta di soddisfazione:
questo è il millesimo post di questo blog!
Grazie a tutti coloro che ci hanno letto e continuano a seguirci!

mercoledì 22 aprile 2009

"Goganga", simpatica canzone di Giorgio Gaber

Riprendere vita

Il Vangelo della Liturgia di oggi:
Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò dal Signore Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto» (Giovanni 3,1-7).

"Rinascere" è la grande chance che ci viene offerta.
"Rinascere" è una necessità.
"Rinascere" è un dovere.
Ci viene offerta la possibilità,
ne sentiamo il bisogno,
ci viene richiesto un impegno
perché dall'Alto, dal Capo, daccapo,
ri-nasca ognuno di noi che ha ricevuto il battesimo da neonato,
ri-nasca la Chiesa.
don Chisciotte

Resistenza

martedì 21 aprile 2009

Non c'avevo pensato...

Secondo il Wall Street Journal hanno superato categorie come pompieri e baristi
Su 2 milioni, 1,7 ne ricavano reddito e per oltre 400.000 è il primo lavoro
Professione blogger, l'anno del boom: guadagnare con un post online
NY - Professione blogger. Che negli ultimi due-tre anni ci fosse stato il boom era risaputo, ma che in America la categoria di chi si guadagna da vivere "postando" online fosse più numerosa dei programmatori di computer, dei pompieri o dei baristi (tanto per citare molto diversi tra loro) e alla pari con gli avvocati - anche se questi ultimi guadagnano sicuramente di più - nessuno lo immaginava. Lo ha scoperto il Wall Street Journal che in un articolo (sul sito online) - mettendo insieme gli studi, le analisi e le statistiche disponibili - è arrivato al sorprendente risultato. Tra gli oltre 20 milioni di blogger presi in esame in America (tutti quelli che lo fanno per passione, per informare, per gioco o per qualsiasi altro motivo) ce ne sono 1,7 milioni che ci guadagnano sopra. E per 452mila di costoro quei soldi sono la prima fonte di stipendio.
"Siamo diventati la nazione più noisily ostinated (traducendo alla lettera "rumorosamente ostinata nelle opinioni") sulla faccia della terra", ironizza il Wsj. Arrivando ad ipotizzare che nella "Information Age", l'era dell'informazione, che ha prodotto così tante nuove professioni, il blogging potrebbe essere quella che avrà il maggiore impatto e le maggiori conseguenze "sulla nostra cultura". Se i giornalisti erano "il quarto potere, i blogger stanno diventando il quinto".
Un'attività iniziata come "forum di discussione" sulla politica e le nuove tecnologie si è allargata rapidamente a tutti i campi immaginabili della vita, "dalla maternità alla sanità, dalle arti alla moda, fino alla odontoiatria". Quello che era iniziato "come un hobby o uno sbocco per volontari" sta diventando un "big business" per i nuovi siti emergenti, per le società che da questi vengono giudicate e per tutti coloro che lavorano "in questa nuova industria".
Viene anche fornito l'identikit del blogger. Molto istruiti (tre quarti sono laureati in un college), la maggioranza bianchi che guadagnano sopra la media. Un giovane americano su tre fa il "blogger" (nel senso più esteso) e tra questi chi ci guadagna per vivere è il due per cento. In che modo? Secondo i calcoli del Wsj con centomila visitatori unici al mese un sito può guadagnare 75mila dollari all'anno. Per un buon "post" i blogger possono prendere da 75 a 200 dollari, qualcuno può fare addirittura lo 'spokeblogger', pagato dai pubblicitari per "bloggare" un prodotto.
Considerato che è un lavoro che non prevede spese di trasporti, che ha costi iniziali bassi (ma un orario tra le 50 e le 60 ore settimanali) è naturale che attiri tantissimi giovani. I professionisti, quelli che sono assunti e lavorano per una società, sono pagati tra i 45mila e i 90mila dollari l'anno, una piccola percentuale raggiunge anche i 200mila.
Mentre il numero dei blogger cresce, il numero dei professionisti dell'informazione tradizionale diminuisce significativamente. Solo a Washington - la città più "blogged" d'America e forse del mondo - rispetto a pochi anni fa è diminuito del 79 per cento il numero dei giornalisti che lavorano nei tradizionali giornali di carta. Del resto i siti online al top della graduatoria già oggi hanno introiti considerevoli e a un certo punto "non ci sono dubbi che l'Huffington Post varrà più del Washington Post".

Pecore scattanti

Volete misurare la prontezza dei vostri riflessi?!
Provate a fermare le velocissime pecore di questo giochino!!

lunedì 20 aprile 2009

Ennesime parole senza seguito

Il coraggio di punire davvero
I cori razzisti a Balotelli una vergogna nazionale.
Occorre cambiare le regole al più presto e dare più armi agli arbitri, inasprire le sanzioni economiche e sportive
di Gianni Mura
Tutto nel segno di Balotelli. Anche grazie a un suo gol si chiude il discorso al vertice del campionato, ma il tifo razzista contro di lui a Torino apre un nuovo capitolo. "Se fossi stato allo stadio avrei ritirato la squadra" ha detto Moratti. Nel pomeriggio di ieri le scuse di Cobolli Gigli. E intanto il calcio italiano si scopre brutto in campo, ottuso e violento intorno al campo, lontano dall'Europa. Non è una bella fotografia, ma fotografa la realtà. E sottovalutarla, far finta di nulla non conviene a nessuno. Altre considerazioni.
1. Peccato che Moratti non fosse a Torino e quindi non potesse ritirare la squadra. Un segnale forte sarebbe servito. Così, si prende atto che l'arbitro, in sintonia col delegato all'ordine pubblico, può sospendere la partita per uno striscione razzista non rimosso, ma per cori razzisti no. Per un bengala , un petardo sì. Per cori razzisti no. L'arbitro può segnalare i cori nel suo referto. In genere scatta una multa (cifre ridicole, poco più d'un buffetto sulla guancia).
2. Il razzismo negli stadi non è un male solo nostro, è diffuso in Europa, e per l'Uefa e per Platini che la dirige questa è una battaglia da vincere. Occorre cambiare le regole al più presto e dare più armi agli arbitri (che palesano spesso improvvise sordità). Occorre inasprire le sanzioni, da quelle economiche (che si possono destinare a campagne d'educazione) a quelle sportive. Inasprire significa non aver paura di stangare: in caso di recidiva, passare dalla chiusura dello stadio alla partita persa alla penalizzazione in punti all'esclusione dalle coppe europee. (...)

"Uscite dalla scatola"

E' il tredicesimo anno di "Tv Turnoff Week" e aderiscono sempre più telespettatori
"Spegnete la tv per sette giorni": da Londra dilaga la protesta
Staccare la spina per sette giorni. E magari, se il risultato è incoraggiante, non riattaccarla più. E' l'obiettivo della "Tv Turnoff Week", la settimana della televisione spenta, una campagna ideata in Gran Bretagna e ripresa da numerosi altri paesi per provare a vivere senza tivù. Comincia oggi e finirà domenica, senza illudersi di poter realizzare una simile rivoluzione: ma i sostenitori dell'iniziativa aumentano e i suoi promotori sperano che come minimo serva a rendere la gente più consapevole, spingendo quelli che la televisione intendono tenerla accesa a guardarla un po' di meno. "Get out of the box", letteralmente "uscite dalla scatola", del video s'intende, è lo slogan stampato in migliaia di poster appesi nelle strade di Londra e di altre città inglesi. Fate un esperimento, dicono gli organizzatori: invece di guardare la tivù, stasera invitate i vostri vicini a fare due chiacchiere. I benefici, assicurano, saranno istantanei.
La settimana della tivù spenta è un'invenzione di David Burke, un americano di 44 anni trapiantato da decenni in Inghilterra. Tutto cominciò quando un amico gli mise in mano una newsletter anti-televisione: Burke lo lesse, si mise alla prova e da allora è il più ostinato combattente sul fronte della lotta al video. "Dal giorno in cui ho smesso di guardare la tv", racconta, "ho cominciato a vedere la società contemporanea occidentale con altri occhi. Di colpo mi sono reso conto dell'assurdità di entrare in una stanza in cui nessuno parla perché tutti sono ipnotizzati da uno schermo luminoso". (...)
Del resto studi e cifre sugli effetti dannosi della tivù, o meglio del guardarla troppo, si moltiplicano. Una ricerca della British Psychological Society afferma che guardare la televisione fa male alla salute, e una dell'associazione americana pediatri è giunta a simili conclusioni. (...)

Promozione della vita

Salvare le vite, poi puntare i piedi
di Giovanni Bianconi
Il «caso Pinar» ha trovato una soluzione, grazie alla scelta umanitaria dell’Italia di far attraccare la nave in un porto siciliano. Prima ancora della disputa con Malta - diplomatica e non solo, par di capire - c’era da risolvere l’emergenza di 140 vite «clandestine» in pericolo. Emergenza di carattere politico, oltre che umanitario. Perché è politica scegliere di anteporre le ragioni della solidarietà a quelle delle competenze sulle acque di nessuno dove chi cerca un approdo rischia l’abbandono.
Alla fine ha prevalso la volontà di tendere una mano a quei migranti in cerca di futuro, e quando avranno toccato terra ci sarà il tempo per riprendere le discussioni tra governi e ambasciatori su chi aveva il dovere di intervenire. Una volontà che magari poteva affiorare prima, senza arrivare alle condizioni - allarmanti, tragiche o disperate, a seconda delle diverse fonti - in cui versavano i profughi raccolti dalla nave turca. E senza l’immagine un po’ imbarazzante di ministri che si rimbalzavano le responsabilità tra Roma e La Valletta, mentre quei corpi ammassati in coperta aspettavano in mezzo al mare.
Di questi tempi le politiche dell’immigrazione sono complicate, ma puntare i piedi davanti a uomini, donne e bambini che chiedono aiuto non è un bello spettacolo. Meglio cercare soluzioni e accordi prima che si verifichino situazioni come quelle della Pinar, e se al dunque si rivelano inadeguati prima si affronti l’emergenza e poi si torni a discutere di competenze e acque territoriali. Solo con le vite messe in salvo, però, anche se sono «clandestine».

Pre-veggente

Giuro che non ho letto nel pensiero del ministro
quando sabato ho scritto il mio post sulla crisi!

domenica 19 aprile 2009

Bella sbornia!

Diversamente belli
di Massimo Gramellini
Diario mediatico di un giorno di crisi. Apro il giornale e leggo di una donna inglese con la voce d’angelo e la faccia da rospo che a cinquant’anni emerge dal cono d’ombra in cui l’aspetto fisico l’aveva reclusa e diventa una stella della tv. Sulla copertina di una rivista spunta il volto da geroglifico di Rita Levi Montalcini, immortalata alla vigilia dei suoi primi cento anni. Su un’altra resistono la Bellucci e la Herzigova, però fotografate senza trucco: sempre belle, non più irraggiungibili. In televisione la rivelazione sanremese Arisa gioca con la sua goffaggine, mentre scorre la pubblicità di un uomo di 102 anni che affida a una pronipote in fasce la nuova parola d’ordine: non più «ricchezza», «benessere» e neppure «ottimismo», ma «felicità».
Potrei andare avanti: la vecchiaia e la bruttezza non avevano mai goduto di tanta fortuna. E fa un certo effetto ritrovarle esaltate proprio in quelle cattedrali della visibilità che negli ultimi decenni avevano imposto l’eterna bellezza e l’eterna giovinezza come valori assoluti, ma così assoluti che per ottenerli si era disposti a sacrificare anche l’intelligenza sull’altare dell’eterna idiozia. Poiché il sistema della comunicazione non ha mutato missione sociale - vendere - si deve parlare di un cambio di strategia. La sostanza ricomincia a prevalere sull’apparenza. Qualcuno ne darà il merito alla crisi che sforbicia l’effimero e si concentra su ciò che è essenziale: la saggezza, il talento, la sobrietà. Per ora sembrano i postumi di una sbornia. Speriamo di non risvegliarci con il mal di testa.

A proposito di maturità cristiana...

Se per una foto si chiede di ripetere la cresima...
di mons. Mario Delpini
Avvenire - Milano 7 - 12 ottobre 2008
Non c’è niente di male nella fotografia. È un bel ricordo: ciascuno si fa il suo album personale e ogni tanto lo riguarda sorridente. La zia che non ha potuto venire in chiesa per i suoi acciacchi incornicia la fotografia e la tiene sul tavolino: una piccola collezione degli eventi dei nipoti, per farsi compagnia e per farsi bella mostrandola alle amiche. La fotografia porta l’evento anche oltreoceano e pure lo zio che abita in Argentina può ricordarsi del nipotino e inviare il suo esotico regalino. Non c’è niente di male nella fotografia. Certo è un po’ bizzarro che la ragazzina mentre viene segnata con il sigillo dello Spirito Santo, guardi di lato, per assicurarsi che il fotografo sia all’opera e non manchi l’istante. E fa un po’ sorridere il ragazzino che, secondo le raccomandazioni della mamma, si mette un po’ di sbieco, perché si veda bene la catenina d’oro e il crocifisso che gli ha regalato il padrino. Mi sembra però che abbia esagerato quel fotografo che mi ha chiesto se potevo ripetere per un ragazzo la scena della crismazione, perché proprio in quel momento s’era messo di mezzo il parroco! E io che credevo che la cosa più importante della cresima fosse il dono dello Spirito Santo!