sabato 17 gennaio 2009

Si può sempre imparare

L'ammainabandiera di Silvio
di Massimo Gramellini
La morale: c’è sempre un emiro più emiro di te. Se il figlio prediletto Kakà si trasferirà nell’harem dello sceicco di Manchester, Berlusconi avrà applicato a se stesso il principio sul quale ha impostato la vita: ogni uomo ha un prezzo. Anche lui.
Finora quel principio lo aveva sperimentato sugli altri: non solo nel calcio, ma soprattutto lì. Quando scippò l’atalantino Donadoni all’Avvocato raddoppiando all’ultimo la già lauta offerta della Juve. Quando rapì il granata Lentini in elicottero per mostrargli un oceano di banconote. O quando, a furor di bigliettoni, sfilò alla Lazio la sua bandiera, Nesta, dopo aver giurato al meeting di Comunione e Liberazione che Nesta mai e poi mai.
Anche nel calcio Berlusconi ha sempre mostrato le sue due facce. Tradizionalista in famiglia, dove Baresi, Maldini e Costacurta alimentavano il culto feticista per le bandiere, quei giocatori che restano legati in eterno al club degli esordi. E spregiudicato innovatore in giro per il mondo, dove utilizzava l’arma infallibile del denaro per strappare gli scalpi migliori, senza alcun riguardo per i contratti firmati e le promesse fatte ai tifosi: nient’altro che carta da far scomparire dentro altra carta, quella luccicante dei suoi dobloni.
Era come uno di quei condottieri romani che, per conservare la civiltà a casa propria, si prestavano a essere i razziatori di quelle altrui. Finché non trovarono dei barbari più barbari di loro. Il barbaro di Berlusconi si chiama Mansour e sta per dargli 150 milioni di dollari in cambio della sua verginità di seduttore non seducibile. Una proposta impossibile da respingere e il premier, uomo pratico, finirà per accettarla. Ma sono sicuro che, nell’incassare l’assegno, per la prima volta in vita sua si sentirà invecchiato.

Scarpe e birra... il senso che muove i sensi!

Chapeau a chi ha inventato e prodotto questo spot azzeccatissimo!

Commenti entusiasti di coloro che l'hanno visto... e gustato!!

Video in qualità migliore qui.

venerdì 16 gennaio 2009

Prendiamo le distanze!


Quando l'espressione "tradizione cristiana" tradisce l'amore cristiano
e serve a coprire l'ignoranza e la violenza.
Tettamanzi a Varese, la Lega contesta
"Un presidio in difesa dei valori e della tradizione cristiana", spiega il segretario cittadino del Carroccio, Fabio Binelli, che esprime "dissenso rispetto all’atteggiamento di succube accondiscendenza, quando non di attivo collaborazionismo, manifestato dal cardinale nei confronti dell’espansione islamica nella diocesi"
di Zita Dazzi
Lui dentro al collegio religioso a parlare di "questione morale", a criticare il consumismo contrapponendolo alla solidarietà, ad invocare la "sobrietà di stile" di chi fa politica. I leghisti fuori, con gli striscioni "Tettamanzi vescovo di Kabul" e "Varese ambrosiana, mai musulmana". Non ha avuto una accoglienza calorosa l'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, arrivato a Varese per la prima tappa del suo giro di incontri con gli amministratori pubblici delle province della Diocesi ambrosiana. Ad aspettarlo, anche se tenuti a debita distanza dalla una folta presenza di forze dell'ordine, una trentina di militanti della Lega Nord.
"Un presidio in difesa dei valori e della tradizione cristiana", spiega il segretario cittadino del Carroccio, Fabio Binelli, che esprime "dissenso rispetto all'atteggiamento di succube accondiscendenza, quando non di attivo collaborazionismo, manifestato dal cardinale nei confronti dell'espansione islamica nella diocesi".
Dal suo discorso Tettamanzi ha volutamente lasciato fuori i temi caldi del dialogo con l'Islam, limitandosi a criticare "la solidarietà per categorie" che distingue "i poveri a seconda del colore della pelle e della provenienza". Il fulcro del discorso era altro: l'invito ai politici a praticare "una rinnovata sobrietà nelle parole, nell'esibizione di sé, nell'esercizio del potere e nello stile di vita", il biasimo è per l'abitudine al "cumulo delle cariche", per lo "spreco di parole", per "l'ostentazione di grandezza e ricchezza"
Avvenire, il quotidiano dei vescovi, definisce l'accaduto una "indecorosa gazzarra" sulla quale "varrebbe la pena di stendere un velo pietoso" in un boxino riconducibile alla direzione. "Ma non si può tacere - scrive Avvenire - che lo stesso padrone di casa, il sindaco Fontana, ha deciso di sponsorizzare (con appena qualche cautela preventiva) quella brutta iniziativa, venendo meno non solo a un basilare dovere di rappresentanza di tutta la sua città, ma anche alla più elementare cortesia istituzionale". Il quotidiano critica poi "gli inaccettabili slogan di certi uomini di partito che per sostenere la loro polemica con gli islamici non trovano di meglio che prendersela anche con il pastore della Chiesa ambrosiana".

Occasioni di formazione sprecate -2

Ancora ieri ho sentito che ci sono studenti a livello universitario
che chiacchierano a scuola, leggono altro, chattano col pc, mandano sms...
il tutto durante le lezioni e sotto gli occhi dei prof.
Vivrò fuori dal mondo, ma ero convinto che per loro le medie fossero finite da tempo...
ma forse non hanno giocato abbastanza a quel tempo.
E magari credono che la vita - in fondo - sia solo un gioco,
giocato con le loro "regole"... senza regola.
don Chisciotte

Occasioni di formazione sprecate

Lo stupidario degli universitari
Lo sconcertante esito dei test d'accesso
Un po’ sbrigativamente, uno direbbe: "Che somari". Ma bisogna capirli, poveretti, con l’Italia che si trovano. Se il ministro dell’Istruzione va a fare l’esame da avvocato in Calabria dove si passa di più, che sarà mai se un aspirante scienziato politico - ai test d’ammissione per «Scienze internazionali» all’università di Forlì - alla domanda «chi uccise Giacomo Matteotti?» risponde «le Br»? È appena accaduto, università di Bologna. (...) I ragazzi di tutto questo non sembrano essersi accorti. Nessuno gliel’ha detto. Erano alla playstation. «Chi ha ucciso Giacomo Matteotti?». Risposta: «Le Br» (peraltro collocate cronologicamente nei primi Anni Sessanta). «Chi era Roberto Ruffilli?» (oltretutto la Facoltà dove si tenevano le prove è intitolata a senatore democristiano assassinato dalle Br nell’88). «Uno scienziato». «In quale contesto hanno lavorato insieme le figure di Massimo D’Antona e Marco Biagi?». Silenzio, buio, vuoto pneumatico.
«Piazza Fontana» è stata scambiata per un luogo dove vedersi il prossimo fine settimana. I fratelli Rosselli ignorati, confusi chissà, con dei costruttori di scarpe. C’è chi, alla domanda «cos’è stato il Msi?», ha detto un’azienda di stato, risposta errata a meno che non si voglia ipotizzare una sottile interpretazione da parte del ragazzo revisionista. Ad altri erano sconosciuti «quali partiti si sono fusi nel Pdl, o nel Pd»; zero anche sulla crisi nel Caucaso, le tensioni in Pakistan (attribuite a Gheddafi che qualcosa c’entra sempre), le elezioni americane o il crac finanziario negli Stati Uniti. «Le risposte in quasi tutti i casi sono state deludenti», comunica Andreatta. Spesso risibili. La professoressa, sgomenta, ha tentato la difesa in extremis: con me avevano sempre studiato. L’assimilazione l’hanno fatta però davanti al Gabibbo. Questi universitari sono convinti che il Pci di Palmiro Togliatti sia stato il partito che ha governato l’Italia «per gran parte della storia repubblicana», tesi peraltro analoga a quella che compare nell’opuscolo «Italia Forza», spedito nelle case degli italiani per le ultime elezioni. Altri lo ritengono «uno dei cardini del pentapartito», riscrittura della storia innocente quindi più interessante di quella tentata oggi con Salò. L’unico modo per esorcizzarla è, forse, la sublime ironia di tempi andati. A Torino ancora raccontano una giornata memorabile per un’intera generazione, quando Gaetano Scardocchia, direttore della Stampa, accolse così, nel salone al piano terra del giornale, i giovani usciti dalle selezioni di una scuola di giornalismo: «Siete stati tutti bravissimi, molto preparati, complimenti. A parte uno che alla domanda sul Dalai Lama ha risposto “è un vulcano”». Ovviamente, gelo davanti al leggendario direttore; che per fortuna era divertito dall’accaduto, e la buttò a ridere. Tra parentesi, l’imputata, elegantemente, si autodenunciò.

Animali alla radio... dalla parte del microfono


E le miriadi di stupidate dette in questi anni su ogni argomento?!
Non sarebbero state sufficienti per fermarsi e autolimitarsi?!
Meno male che la definizione che meritano
se la sono data da soli con l'ultimo aggettivo virgolettato.

giovedì 15 gennaio 2009

Aldo Grasso sul GF9


Qui il video del suo commento.

Finalmente!

Vescovi contro la «tassa» degli immigrati
Monsignor Gnesotto: «Balzello verso una categoria già poco tutelata». Maroni: «Meravigliato dalle critiche»
Nonostante il governo sottolinei come il pagamento per ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno da parte degli stranieri sia un «contributo» e non un'imposta, i vescovi italiani non ci stanno e attaccano il provvedimento come «inaccettabile». L'occasione è la presentazione nella sede di Radio Vaticana della Giornata del Migrante, che si festeggia domenica 18 gennaio. «Una tassa che è meglio definire balzello verso una categoria già poco tutelata - attacca monsignor Gianromano Gnesotto, responsabile per gli immigrati e i profughi in Italia della Fondazione Migrantes, organismo della Cei -. Fantasie di questo genere penalizzano ulteriormente gli immigrati che, con impegno e con notevoli sforzi, cercano di integrarsi. È un passo indietro, servono politiche di integrazione con mentalità aperta e intelligenza». Gnesotto sottolinea che l'Italia «ha bisogno, ha avuto bisogno e avrà bisogno anche in futuro» di lavoratori stranieri e che «nell'attuale congiuntura economica probabilmente ci sarà bisogno di maggiore flessibilità anche per quanto riguarda la domanda di immigrati, ma non ci si può dimenticare che occupano settori di fatto lasciati scoperti dagli italiani». La Fondazione Migrantes respinge anche la proposta avanzata dalla Lega di prevedere l’obbligo di denuncia degli irregolari da parte dei medici cui si rivolgono. «Il diritto alla salute è fondamentale e va garantito a tutti senza preclusioni o invenzioni. Non si può far svolgere ai medici compiti, quale la delazione, che non vogliono né possono svolgere come se fossero gendarmi».
Immediata la reazione di Roberto Maroni. Il ministro dell'Interno si dice «francamente meravigliato» da queste polemiche che, «però, non ci toccano minimamente perché stiamo facendo quanto hanno fatto da tempo i Paesi europei». (continua)

Specchio

"Ho bisogno qualcuno di intelligente per essere intelligente a mia volta".

"Il reale ci dà esattamente ciò che noi diamo a lui, né più né meno. Quando sono mediocre, quello che vedo mi sembra lo stesso. Allora ho l'anima di un bulldog: tutta raggrinzita".

Christian Bobin, La luce del mondo, 106.108

mercoledì 14 gennaio 2009

"Nemici"

A Cinecittà, dietro le quinte del programma Amici
Maria «la sanguinaria» regina del minimal nel circo delle passioni
Poca ironia, molta lucidità. «Ho imparato da Simenon».
Tanto narcisimo in mezzo allo psicodramma
di Paolo Di Stefano
Il guaio è questo. Nella prima mezz'ora, forte della tua incorruttibile lucidità critica, ti chiedi dove sei finito e trattieni a fatica la voglia di dartela a gambe. Poi, abbandonata la tua fiera rigidità sartriana, ti rilassi, abbassi il sopracciglio ed esibisci per un'oretta un approccio più sciolto e autoironico, tra il desiderio di capire e la condiscendenza populistica. E alla fine ti accorgi che di mezz'ora in mezz'ora ogni difesa si è a poco a poco sgretolata e le tue macerie ideologiche si sono lasciate inghiottire nel circo, non sei più un intruso ma ne fai già parte e con un ruolo che ti calza a pennello, non sai ancora quale ma ti calza a pennello.
Si fa presto a dire: «Amici»? Tv trash, finzione, volgarità allo stato puro. Provate voi a stare lì, nello studio 19 di Cinecittà, un intero pomeriggio, a pendolare tra la sala riunioni formicolante, il va e vieni dei corridoi, la penombra partecipante del backstage e i fari del set sovreccitato. Provateci e dopo un po' vi convincerete che è tutto vero: ci sono davvero due squadre che si fronteggiano fino allo spasimo, con giovani ballerini veri e cantanti veri, bravi o meno bravi ma in carne e ossa, tutti narcisi, con le loro crestine, i ciuffetti, i piercing, le mèches come Dio comanda, professori che (bene o male) insegnano davvero, cinquecento ragazzi impazziti sugli spalti, anziane signore in lacrime (vere) tra il pubblico. Persino i venti minuti buoni a sentir parlare l'insopportabile vocal-coach Jurman e il foniatra prof. Fussi (è in collegamento telefonico, ma sembrerebbe vero pure lui) delle corde vocali della povera Alessandra, un po' provate dall'uso: se davvero (davvero) le siano così dannosi i pomodori e l'insalata a foglia larga. Venti minuti venti di psico melodramma sanitario. E Maria De Filippi.
Notizia: è vera anche lei, la dea ex machina, vera e nera (jeans, camicia, pulloverino), con la sua camminata da cow-boy, la sua voce baritonale, il ruvido aplomb, la cattiveria appena dissimulata di chi dirige il traffico in tre programmoni mica da ridere, l'acribia nel ricostruire gli antefatti («ora facciamo un passo indietro») e nello spiegare i vari (veri) passaggi tecnici della gara a un pubblico in estasi, pronto a regalare ovazioni all'allevatrice di talenti, non meno che ai talentini in erba. La vera scoperta è che il programma si dovrebbe chiamare, piuttosto, Nemici, perché le ostilità prevalgono nettamente sulle amicizie, persino tra gli insegnanti. Ma ha gioco facile chi sostiene che è proprio qui il bello del talentshow: nessuna finzione, niente ipocrisie, pane al pane. Una commissione litigiosa? Nulla di più fedele qui, sottovetro, a quanto accade fuori, nel mondo. Già, allora il difetto sta all'origine: perché chiamarlo «Amici»? Che amici non vedono l'ora di farti fuori perché mors tua vita mea? Anche questo è vero. O no?
Maria la Sanguinaria (così la chiama Dagospia) sorride se proprio non può farne a meno, ammicca il necessario. Il resto sono gesti trattenuti, parchi riassunti, didascalie che pronuncia seduta su una sedia thonet alla destra del tavolone su cui troneggiano i commissari, la barba ottocentesca del maestro Vessicchio, accanto alla severità iperprofessionale di Alessandra Celentano che non ammette sconti di benevolenza per candidati ballerini somaticamente non proprio baciati dalla Natura: «Io miro alla qualità e alla totalità». E che su Daniela, visibilmente sovrappeso, commenta: «Non l'avrei neanche fatta entrare, ha problemi fisici enormi». Senza pietà. Ma la vera Sanguinaria, lo sa anche l'ultimo dei macchinisti, è un'altra. Più autorevole di tutti i professori messi insieme. Il suo sforzo consiste nel non far pesare la propria centralità: via via madre-matrigna («Che c'è, Alessandra?», «Qual è la tua ansia, Martina?»), confidente, bacchettatrice sadica e dispensatrice di carezze e di fama, eminenza nera (vera), direttore scolastico, burattinaia, supermanager galattico di un'azienda, «Fascino», che produce ormai non solo programmi ma dischi, musical, concerti, teatro, libri. Produce anche ciò che sembra nascere spontaneo, come le adunate pazzesche che in aprile hanno chiuso la serie numero 7 in piazza del Popolo a Roma e in piazza dei Centomila a Cagliari.
Tutto gira intorno a lei che raramente raggiunge il centro della scena, anzi per lo più resta lì sulla sua sedia, piegata in avanti, i gomiti sulle ginocchia, il microfono tenuto quasi controvoglia tra le mani come se qualcuno glielo avesse imposto lì per lì. Ha scelto le tinte sottotono perché, dice, «odio il protagonismo del conduttore vecchia maniera, preferisco osservare e cercare di capire». I maestri di cerimonie televisivi sono un ricordo remoto: nessun birignao, nessun proclama preliminare. È l'anti- Baudo e l'anti-Carrà. Giusto un filo di rossetto prima di entrare. Modelli? Neanche tanto illustri: «La Sampò e anche la Raffai». Tutt'al più si passa una mano tra i capelli, unico tic che sfugge a un autocontrollo da wonder woman. «Eppure», racconta dietro le quinte, «quando molti anni fa mi hanno chiesto di sostituire Lella Costa come conduttrice di "Amici", ho passato mesi con l'incubo di andare in onda: provavo e riprovavo, facevo riassunti di 2-3-5 minuti da Simenon, mi esercitavo intervistando chiunque, registravo e mi riascoltavo di continuo. La paura era l'ingresso in scena, il saluto, il sorriso iniziale per catturare lo spettatore».
Oggi non si direbbe. Le dicono che tra cinque secondi dovrà andare sul set e ancora trattiene l'ennesima sigaretta tra le dita senza scomporsi. Ha fatto studi di giurisprudenza e si vede nella preoccupazione di far rispettare un presunto Codice-Amici come fosse il Codice dei Diritti Umani sottoscritto dalle Nazioni Unite, nel dosaggio della parola, nell'arte della postilla, che fa un effetto straniante se metti a fuoco che quei sillogismi («dunque», «se ho capito bene», «è corretto, quel che dico?», «proviamo a capire meglio», «facciamo il punto della situazione») sono al servizio del circo televisivo più approssimativo e sfrenato. Lavora su di sé per antitesi. Lei frena, taglia corto perché gli altri possano scatenarsi, lei agghiaccia perché il resto possa incendiarsi, lei è un manico di scopa perché gli altri possano sculettare liberamente. E quando la platea si sganascia lei tutt'al più concede un sorriso trattenuto, quasi una smorfia. Ironia poca, autoironia ancora meno. Lucidità sì. Non parlatele di Tv pedagogica, la sua mano scivolerà alla colt. Però, il gioco deve essere molto serio, anche perché alla fine non è un gioco per nessuno, né per i vincitori né per i vinti. Tantomeno per Sabina Gregoretti (occhi di ghiaccio, il suo alter ego incontrastato) e per gli altri autori che la mattina dopo corrono a verificare l'audience. Semmai rideranno dopo. E ridono, spesso e volentieri. Davvero. Troppo vero per essere davvero finto.

Parossismo

Obama non s'ama più
di Massimo Gramellini
Secondo il New York Times, se Obama non riuscirà a rilanciare l'economia, farà un solo mandato: nel 2012 toccherà a qualcun altro rompersi le corna contro la Storia. Quando venne eletto, appena due mesi fa, il futuro presidente era una via di mezzo fra Superman e mago Merlino: bastava sfiorarlo per essere guariti da tutte le malattie. Nelle settimane successive venne restituito a una dimensione più umana, ma sempre stratosferica: il Time lo incoronava personaggio dell'anno e le riviste femminili riportavano gli ingrandimenti delle sue foto a torso nudo, mentre milioni di cittadini gli caricavano sulla schiena le loro speranze. Subito dopo arrivarono i primi appunti, che in breve divennero critiche: e il governatore amico che non era uno stinco di santo, e l'indigestione di clintoniani al governo, e dove troverà i soldi per aumentare la spesa pubblica. Ora le critiche assomigliano a una bocciatura: lui stesso ammette che non potrà mantenere le promesse, chissà se entro la fine della settimana qualcuno chiederà l'impeachment. Di sicuro la magia della nuova presidenza è già evaporata. E tutto questo senza che Obama si sia ancora insediato alla Casa Bianca.
E' il destino parossistico di un'epoca dominata dalla dittatura delle emozioni, che a differenza dei sentimenti sono violente, superficiali e brevi. Dalla Borsa alla vita privata, viviamo storie frenetiche e senza pazienza che prima ancora di decollare hanno già consumato l'intera gamma, dal desiderio al disgusto. La natura ha i suoi tempi: non si può giudicare un partner dopo sei mesi, e nemmeno un manager. Quanto a un presidente, lo si lasci governare almeno un weekend.

martedì 13 gennaio 2009

Per continuare a riflettere e pregare

Stiamo con i civili di Gaza
di Mario Vargas Llosa
C’è qualche possibilità che l’invasione militare di Gaza messa in atto da Israele distrugga le infrastrutture terroriste di Hamas - obiettivo ufficiale dell’operazione - e faccia terminare i lanci di razzi artigianali degli integralisti palestinesi che controllano la Striscia sulle città israeliane di frontiera? Penso che non ce ne sia nessuna e che l’operazione militare nella quale, sino al momento in cui scrivo, sono morti oltre 600 palestinesi - un gran numero di bambini e di civili innocenti - e che ha causato migliaia di feriti, avrà, nella comunità palestinese piuttosto l’effetto d’una potatura dalla quale uscirà rafforzata Hamas e parecchio indebolita la parte moderata, l’Autorità Palestinese guidata da Mohamed Abbas.
Per dare una parvenza di realtà al motivo brandito come giustificazione dell’attacco da Ehud Olmert e dai suoi ministri, Israele dovrebbe occupare Gaza con un immenso e permanente spiegamento militare o perpetrare un genocidio di cui neppure i suoi falchi più fanatici oserebbero farsi carico e che, speriamo, il resto del mondo non tollererebbe; anche se l’opinione pubblica internazionale ha mostrato, più d’una volta, una supina indifferenza per la sorte dei palestinesi.
La verità è che, per quanto feroce sia stata la punizione inflitta dall’esercito d’Israele a Gaza e, anzi, proprio a causa del sentimento d’impotenza e di odio per ciò che è accaduto al milione e mezzo di palestinesi che vivono ridotti alla fame e mezzo asfissiati in questa trappola, è probabile che, quando Tsahal si sia ritirato dalla Striscia e sia tornata «la pace», gli atti terroristici riprendano con maggior vigore e con un desiderio di vendetta attizzato dalle sofferenze di questi giorni.
I fautori dei bombardamenti e dell’invasione rispondono a chi li critica con questa domanda: «Sino a quando un Paese può sopportare che le sue città siano bersaglio di razzi terroristi lanciati dalle frontiere per giorni e mesi da un’organizzazione come Hamas che non riconosce l’esistenza di Israele e non nasconde le sue intenzioni di distruggerlo?». L’interrogativo è davvero molto pertinente e nessuno, a meno che non sia un terrorista o un fanatico, può trovare giustificazioni alla continua stretta criminale che Hamas esercita sulla popolazione civile d’Israele. D’accordo. Ma se si tratta di cercare le ragioni del conflitto non è onesto, a mio modo di vedere, fermarsi solo a questo, ai razzi artigianali di Hamas, e non andare, invece, un po’ indietro nel tempo per capire - il che non vuol dire giustificare - ciò che accade in quest’esplosivo angolo di mondo.
segue

Tristezza...



Tristezza per chi si accontenta di questa splendida vita;
tristezza per chi pensa che i problemi maggiori vengano da Lui;
tristezza per chi crede di non aver bisogno.

La questione di fondo

Il senso del sacro val bene la messa in latino?
di Franco Garelli
Chiunque guardi ai fenomeni religiosi d’oggi non può non stupirsi del grande investimento che il Vaticano e il Papa continuano a fare sul ritorno della messa in latino. È recente il grido d’allarme del centro della cattolicità per i vescovi italiani che ostacolano l’antico rito, che fa seguito al monito di Benedetto XVI all’episcopato di Francia perché sulla questione della liturgia non si strappi ulteriormente «la tunica senza cuciture del Cristo». Nel mirino non c’è, dunque, solo la riottosa Francia, ma anche l’episcopato italiano tradizionalmente più elastico verso i cambi di registro della Santa Sede; e pure la Chiesa tedesca, da cui Ratzinger proviene e dove oggi più forte spira il vento della tradizione.
Viene da chiedersi se la questione del latino sia davvero così decisiva per una Chiesa cattolica che è alle prese con le molte sfide cui la espone l’annuncio cristiano nella società pluralistica. Non si stanno affrontando nella cattolicità due diverse visioni di Chiesa? Quanto i fautori del ritorno al latino fanno i conti con le concrete situazioni in cui operano i vescovi e il clero?
Dietro il motu proprio del Papa sulla reintroduzione del latino vi sono certamente varie preoccupazioni e intenti. Anzitutto creare un ponte nei confronti dei cattolici più tradizionalisti (e in particolare dei lefebvriani), per ristabilire la comunione con una quota di credenti che hanno rotto con la Chiesa di Roma a seguito delle aperture del Concilio Vaticano II. La Santa Sede inoltre dichiara di ricevere sempre più proteste di fedeli delusi di non trovare nelle chiese locali la possibilità di assistere alla messa in latino, che si sentono quindi ai margini di comunità che non rispettano la loro sensibilità religiosa. Ma l’argomento forse più forte a sostegno del ritorno alla liturgia del passato è individuabile nel giudizio che «il rito moderno ha distrutto il senso del sacro». La riforma liturgica ha certamente dato adito a esagerazioni e abusi, con alcuni riti rivolti più alla centralità dell’uomo che a quella di Dio, più orizzontali che verticali; con il chiasso delle chitarre che annulla il senso del mistero; con omelie centrate più su considerazioni di ordine sociologico o politico che sul discernimento della parola di Dio. Di qui l’idea che la liturgia pre-conciliare possa restituire quel clima di mistero che si è perso in celebrazioni concepite etsi Deus non daretur.
A rilievi come questi non sono insensibili i vescovi delle diverse nazioni, anche se preoccupati sia della realizzazione pratica del motu proprio papale sia di alcune convinzioni che lo accompagnano. Non c’è il rischio di confondere l’eccezione con la regola, di scambiare cioè la possibilità concessa ad alcuni gruppi di fedeli con il declassamento della riforma liturgica approvata dal Concilio? Certo la Chiesa non può vivere senza un fecondo richiamo alla tradizione e alla memoria. Ma perché ritenere che solo il gregoriano o la messa di Pio V siano capaci di aprire al senso del mistero e della trascendenza? Ancora, questi orientamenti non esprimono l’idea di una cattolicità elitaria ed eurocentrica, a fronte di sentimenti cattolici in molte aree del mondo che non hanno le stesse basi culturali e spirituali né alcuna familiarità col latino? Infine, come far fronte alle domande della vecchia liturgia in una situazione ecclesiale sempre più carente di vocazioni, in cui i preti (molti dei quali non hanno più una formazione classica) dovrebbero moltiplicare le messe per celebrarle sia nella lingua nazionale sia in quella antica?
Pur apprezzata da non pochi «dotti inquieti» (anche di matrice laica), la messa in latino ci riporta al diverso modo di interpretare il rapporto chiesa-mondo presente nella cattolicità. Ancora una volta emerge la tensione tra l’essere un piccolo gregge nel mondo o mirare a un adattamento che non perda la sostanza della proposta religiosa.

Poverina...

lunedì 12 gennaio 2009

Punto prospettico

"I santi hanno infranto in se stessi il principio naturale che separa ogni vita da tutte le altre: più nulla dell'universo è loro estraneo nel loro cuore vibra per il canto della stella come per il sussurro della neve, per il sorriso dei morti come per i pianti del neonato. Non c'è altra umanità se non quella dei santi. Non c'è altra umanità che secondo questo punto di vista soprannaturalmente amoroso, amorosamente sovrannaturale".
Christian Bobin, Il distacco dal mondo, 21

Per noi che abbiamo da mangiare

Lo studio su oltre tremila pesone pubblicato sul british medical journal
Mangiare in fretta fa davvero ingrassare
Lo conferma una ricerca giapponese: trangugiare il cibo manda in tilt il sistema che fa avvertire la sazietà
Bisogna mangiare lentamente, masticare bene (almeno 20 volte ogni boccone) e abbandonare la pessima abitudine di trangugiare tutto velocemente. Pena un girovita più abbondante. Lo dicono le mamme e lo consigliano i nutrizionisti, e oggi la toeria del «chi mangia piano ci guadagna in salute» è avvallata ulteriormente anche da uno studio condotto in Giappone presso la Osaka University e pubblicato sul British Medical Journal.
Gli scienziati hanno analizzato le abitudini alimentari di 3 mila persone, mettendo in luce che chi non si gusta tranquillamente il pasto dedicandoci tutto il tempo necessario, vede raddoppiata la possibilità di essere in sovrappeso. Questo essenzialmente perché ingozzandoci mandiamo in tilt il sistema preposto alla trasmissione del senso di sazietà, che dovrebbe dire al nostro cervello che è il momento di smettere di mangiare perchè lo stomaco è pieno. Così si finisce col mangiare più del necessario e i chili aumentano.
Poco meno della metà dei volontari che hanno partecipato allo studio hanno riferito di avere la tendenza a mangiare rapidamente. I dati raccolti dimostrano che gli uomini dalla forchetta veloce, paragonati a quelli che invece sono fedeli alla filosofia slow, e che degustano le pietanze con la giusta calma e in rilassatezza, hanno l'84 per cento di probabilità in più di essere in sovrappeso. La percentuale è addirittura raddoppiata quando si tratta del gentil sesso. E non è tutto: il rischio obesità è triplicato se, oltre a mangiare velocemente, si mangia fino a che non ci si sente sazi.
Oltre alle raccomandazioni sulla masticazione e sulla qualità del cibo con cui ci si nutre, rimane quindi valido il suggerimento di alzarsi da tavola prima di «sentirsi pieni». Assolutamente sconsigliabile consumare i pasti davanti alla televisione o al computer: meglio sedersi a tavola e degustare ciò che si ha nel piatto, magari sedendosi accanto a qualcuno che invece mangia con calma, giusto per avere un termine di paragone e magari - chissà - lasciarsi influenzare dalla lentezza.

domenica 11 gennaio 2009

"E se fosse tuo figlio?"

Campagna del ministero «E se fosse tuo figlio? - Insieme per un Turismo Responsabile»
Michela Brambilla: «Tacere sul turismo sessuale è connivenza»
«Basta con i viaggi della vergogna». «Coinvolti almeno tre milioni di minori nel mondo»
«Tacere è connivenza, basta con i viaggi della vergogna». È questo il filo conduttore della campagna contro il turismo sessuale «E se fosse tuo figlio? - Insieme per un Turismo Responsabile» lanciata dal sottosegretario con delega al Turismo, Michela Brambilla. «Non si tratta di turismo - ha spiegato intervenendo allo speciale condotto da Monica Saluzzi su Sky - questi sono viaggi della vergogna. Tacere vuol dire connivenza. Perchè sino ad oggi non si è fatto niente? Non lo so. So però che tacere e connivenza. Solo grazie all'aiuto dei mezzi di comunicazione, possiamo toccare le coscienze».
«Sono coinvolti almeno tre milioni di minori per un volume di affari di oltre 100 miliardi di dollari - ha detto Michela Brambilla - il fenomeno ha messo le radici in tutto il mondo. Nel nostro spot infatti, non figurano bambini con particolari tratti somatici o colori di capelli. Il problema coinvolge per il 75% le bimbe, per il 25% i maschietti». A macchiarsi di questo crimine vergognoso «sono soprattutto i giovani - ha aggiunto ancora Brambilla - una cosa allarmante. Si pensa spesso all'anziano ma in realtà i primi interessati sono giovani e spesso padri di famiglia indotti dalla possibilità di fare altrove quello che in Italia non possono fare».
«Spesso questa gente pensa di poter abusare di questi bimbi perchè li considera diversi - ha detto Brambilla - . Il Governo è impegnato molto su questo fronte. Si interviene su tutta la filiera turistica a partire dai tour operator». E poi un avvertimento: in Italia abbiamo leggi all'avanguardia e coloro che pensano di poter commettere questi crimini all'estero e pensano di restare impuniti è bene che sappiano che invece questi reati rientrano nella giurisdizione italiana. «È arrivato il momento in cui tutti i governi devono fare qualcosa contro la pedofilia. Internet - ha sottolineato il Sottosegretario - ha fatto si che il problema stia assumendo contorni preoccupanti. Anche io sono mamma, il messaggio tocca anche me ed è fondamentale la presa di coscienza di quanto possa essere grave la connivenza e il tacere certi fenomeni».

Al freddo e al gelo

Le storie di Amabile, Eme e gli altri 800 homless dispersi tra Duomo e stazioni dei treni
Coperte, vino rosso e un Vangelo: la lunga notte dei clochard di Milano
Viaggio tra i senzatetto del capoluogo lombardo. L'aria calda dei metrò unico rimedio contro il freddo
Amabile, Luca, Angelo il «papà di tutti noi». E ancora: Silvia, Eme Frak, Ronald, Marcus, Leandro. Sono solo alcuni degli ottocento clochard milanesi che dai City Angels e dagli operatori delle altre associazioni di volontariato vengono chiamati gli «irriducibili». Nonostante il freddo, la pioggia e la neve, trascorrono le notti in strada e non abbandonano mai la loro «casa» sul marciapiede, tra le grate, vicino ad una colonna, sulle scale della metropolitana. Per tutti il ritornello è lo stesso: non vogliono andare nei dormitori predisposti per il piano antifreddo dal Comune perché hanno paura di perdere gli scatoloni, i sacchi a pelo, le borse, i Vangeli e tutte le cianfrusaglie che si portano appresso. Siamo andati a trascorrere il tardo pomeriggio e la notte con loro per farci raccontare questa resistenza scalfita a colpi di gelo.
«Sono due anni che vivo a Milano – ci racconta Amabile -, ma sono nata a Collebeato in provincia di Brescia. Ho avuto un grosso shock per la separazione da mio marito e la sottrazione del mio unico figlio. Ora vivo qui, a due passi dal Duomo, sotto un portico». Dispensa sorrisi la tenace bresciana mentre si scalda le mani con il tepore del caffè. «Ho tutto quello che serve per passare l'inverno: una coperta, un piumino, un cappello di lana che mi ha regalato un passante e un Vangelo. Non voglio altre coperte e nemmeno altri indumenti perché potrebbero servire ad altre persone. Preferisco passare le mie notti d'inverno qui, piuttosto che in un dormitorio. Cerco il silenzio e il rumore degli altri mi innervosisce». Amabile non è sola. Lì vicino ci sono Pietro e Jordan che sono di casa. Nel tardo pomeriggio la temperatura cala notevolmente. Fino alla chiusura delle metropolitane – all'1 di notte - c'è un buon metodo per scaldarsi: gli homeless si sdraiano sulle grate centrali da dove fuoriesce il calore prodotto dalle centraline della metrò.
Sono quasi le 20.30, il freddo si infittisce. Lasciamo piazza Duomo che nel frattempo è circondata dai cumuli sale, portati dal Comune per combattere gli effetti dei due giorni di nevicate dell'Epifania, per dirigerci alla stazione centrale, altro punto nevralgico per i senzatetto della città. Nelle entrate laterali troviamo dei gruppetti di clochard che aspettano la notte. Qualcuno per tentare di scaldarsi, o forse quanto meno per non pensarci, beve il vino dalle confezioni di cartone. «Siamo preoccupati per la morsa del freddo - ci racconta Walter Nappa della Fondazione Fratelli di San Francesco - pensiamo alla salvaguardia delle loro vite». Vicino a noi scuote il capo l'assistente sociale Micaela Paleari che ci spiega le ragioni del rifiuto: «Molti di loro hanno un cane, un criceto e non vogliono separarsi dall'unico affetto che hanno; oppure tra ci sono le coppie che non possono stare insieme nei dormitori e preferiscono dormire all'aperto. Ma nei casi più delicati i clochard hanno un mondo che non riescono a condividere con nessuno».
Entriamo dall'ingresso principale della stazione accompagnati da Fernando Coco, un volontario brasiliano di 31 anni che appartiene alla associazione umanitaria Blue Berets. Ci dirigiamo verso i luoghi contesi dai senza-dimora per passare la notte: i vagoni delle carrozze regionali che stazionano sui binari fino alle prime luci del mattino; gli enormi totem che sponsorizzano la regione Piemonte collocati ai lati del piazzale principale. Non ci vuole molto, basta spostare un tendone e si scoprono gli indumenti lasciati come segno di proprietà dai clochard; oppure qualcuno che già dorme abbracciato tra le coperte. «Noi li conosciamo tutti – racconta Fernando – e sappiamo che gli "irriducibili" non cambieranno mai idea. Non chiedono l'assistenza».
Qualche metrò più il là c'è Eme Frak, un cinquantaduenne di origine africana con passaporto francese. Da diciannove anni vive in Italia, dopo una parentesi a Lione. Prima di finire su una strada faceva il muratore. «Sono un irregolare e cerco in tutti i modi di vivere con dignità. E se fa molto freddo non vado nei dormitori per evitare i controlli». Ormai è notte. I tabelloni elettronici indicano i primi treni della mattina in partenza. Qualcuno ha ancora voglia di parlare , forse per non sentire il freddo. Siamo a -3 e Silvia, una polacca di 30 anni nata a Varsavia, ci racconta che nei dormitori c'è stata un paio di volte ma non intende più tornarci. « Preferiamo stare qui. Siamo in troppi, facciamo fatica ad avere delle regole. Abbiamo le nostre piccole abitudini alle quali non sappiamo rinunciare. L'anno scorso al dormitorio mi hanno rubato le scarpe e i guanti. Preferisco rimanere in strada».