sabato 9 dicembre 2006

Don Javier, vicario in un paesino veneto

Arrivato dall'Ecuador, agli inizi erano insulti e accuse. Ma ora "mi vogliono bene". "Faccio quello che fanno tutti i sacerdoti: catechismo ai bimbi, assistenza ai deboli"
Don Javier, vicario in un paesino veneto: "Io, prete straniero chiamato vù cumprà"
Vice a Stanghella e parroco a Stroppare. "La cosa più difficile, capire il dialetto" - dal nostro inviato JENNER MELETTI

STANGHELLA (Padova) - Adesso tutti lo salutano, passando davanti alla chiesa. "Buonasera don Javier", dicono le donne. "Ciao prete", gridano i ragazzi in bicicletta. Ma padre Javier Orger Morillo Revelo, 35 anni, arrivato da Pimampiro, diocesi di Tulcàn in Ecuador, i primi giorni da prete nella campagna padovana li ricorda bene. "Ho bussato a una porta per la benedizione e subito mi hanno detto: "Guardi che noi non compriamo nulla". Altri hanno protestato perché "questi preti moretti portano via il lavoro ai nostri sacerdoti". Qualche insulto, anche: "A casa tua non avevi nemmeno la bicicletta e qui giri in macchina".
Ma padre Javier è un uomo buono, e vuole dimenticare tutto. "Non mi lascio impressionare da chi soffre di presunzione e non è aperto a un mondo che cambia. E poi tutto questo appartiene davvero al passato. Adesso i parrocchiani sono preoccupati perché hanno saputo che fra un paio di mesi mi scade la convenzione con la diocesi di Padova. Ma io li rassicuro: ho avuto il rinnovo, resterò altri tre anni. E loro sono contenti".
Un prete straniero in una terra che per secoli ha mandato sacerdoti in missione in mezzo mondo. "La cosa più difficile? Imparare davvero la lingua. Conoscere l'italiano non basta, c'è anche il dialetto. Ma ormai me la cavo. "Magna e tase", "dame un goto", così posso fare due chiacchiere anche con i ragazzi al bar. Il mio lavoro? Faccio quello che fanno tutti i preti. Catechismo ai bambini, preparazione ai sacramenti, assistenza ai gruppi di giovani di Azione cattolica. Ma l'emozione più grande la provo quando entro nelle case per portare l'Eucarestia agli ammalati e alle persone molto anziane. All'inizio, gli stessi che mi accoglievano con sospetto - mi scambiavano per un vù cumprà - adesso vorrebbero che non andassi più via. Gli anziani, soprattutto, che si sentono soli e mi aprono il loro cuore. Raccontano la loro vita, i dolori e le cose belle, le speranze che ancora tengono dentro. E' in quel momento che mi sento sacerdote davvero: un uomo che aiuta gli altri uomini".
In seminario a 13 anni, "ma solo per sfidare mio fratello che era già entrato e dopo pochi giorni era tornato a casa. Da bambino io non andavo nemmeno a Messa". "Solo a sedici anni ho cominciato a pensare di fare il prete. Poi ho capito che il Signore mi chiedeva di essere generoso, e così ho accettato la chiamata".
Padre Javier è vicario parrocchiale a Stanghella, 4.600 abitanti sulle rive dell'Adige, e parroco a Stroppare, 500 abitanti. "Fare il prete, in fin dei conti, è un "mestiere" uguale in tutto il mondo. Sei dentro la Chiesa e gli insegnamenti del Vangelo non cambiano superando una frontiera. Volevo conoscere la realtà italiana, dalla quale arrivavano tanti sacerdoti nella nostra terra. Ho seguito alcuni corsi all'istituto per la liturgia pastorale a Santa Giustina e alla facoltà di teologia del Triveneto. Poi ho capito che anche qui sono utile, e penso di restare, almeno per alcuni anni. Certo, non mi dispiace fare il prete nella terra dalla quale arrivavano i missionari. Ho capito che quelli bravi, fra i missionari, cercavano di capire la realtà e la cultura del nostro Paese, prima di decidere come muoversi. Anch'io, che sono qui da quattro anni, ho speso molto del mio tempo per conoscere le sensibilità e la cultura di questo pezzo d'Italia".
Anche l'arciprete di Stanghella, don Silvano Silvestrin, 63 anni, è stato missionario in Ecuador. "La ruota del mondo - dice - gira davvero in fretta. Negli anni '90, quando ero missionario, facendo due conti ho scoperto che fra preti, suore e laici in Ecuador eravamo 60 padovani. E ora i loro preti vengono qui da noi perché ormai, con parrocchie molto grandi e preti sempre più anziani, non riusciamo ad annunciare quel Vangelo che prima portavamo a 10.000 chilometri da casa. Per fortuna c'è una convenzione con la Cei attraverso la quale il vescovo di Tulcàn, ad esempio, chiede a quello di Padova di accogliere un suo prete per motivi di studio. E il vescovo di Padova può chiedere a quello di Tulcàn un sacerdote per la pastorale o per assistere i suoi connazionali emigrati".
E' questo uno degli impegni di padre Javier. "Ogni seconda domenica del mese dico Messa per i latino-americani nella parrocchia dei Santi Angeli custodi di Padova. Oltre ai miei connazionali, ci sono peruviani, boliviani, argentini e colombiani. Organizziamo anche dei corsi. Uno di lingua italiana, non solo perché è indispensabile, ma perché è giusto, quando si arriva in un altro paese, conoscerne la lingua. E' una questione di rispetto. E poi c'è un corso di cucina italiana, per le donne che fanno le domestiche e le badanti e così imparano a cuocere la pasta e fagioli o il ragù padovano per gli anziani che assistono. Ci sono operai, addetti alle pulizie negli ospedali. Ma c'è anche chi studia e questa mi sembra davvero una cosa buona".
Dieci fratelli, in Ecuador. "Cinque sposati, un prete che sono io, una suora che assiste i vecchi abbandonati a Quito e altri tre fratelli in attesa di matrimonio. Il ritorno in Ecuador? Forse. Io sono a disposizione del vescovo di Tulcàn, che mi ha prestato a Padova. Del resto, nel mio seminario, noi di Tulcàn eravamo solo 7 ed ora sono 25. In Ecuador i preti non mancano e io qui mi trovo molto bene. Arrivo da un Paese tropicale dove l'inverno e l'estate non esistono. A Stanghella ho scoperto le quattro stagioni. Calpesto la neve e dopo qualche mese sui colli Euganei - ci vado in bicicletta - arrivano i primi colori sugli alberi ed i primi fiori. E' bellissimo. E poi ci sono i sorrisi degli anziani, quando porto loro la Comunione. Adesso nessuno mi lascia fuori dalla porta".
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