mercoledì 30 aprile 2008

Fame


Una bambina eritrea, durante la guerra di liberazione del suo Paese,
viene condotta tra le truppe ribelli e passa con loro più di un anno.
"Non potendo confidare solo nella sorte, ho deciso di cercare da sola qualcosa da mangiare. Anche gli altri bambini, così come gli adulti che durante le regolari distribuzioni di cibo non ne avevano ricevuto a sufficienza, andavano a caccia di tutto quanto fosse commestibile. Si arrampicavano sugli alberi per frugare nei nidi, cercare uccelli, pipistrelli o scarafaggi. Rovistavano nel sottobosco vicino al fiume nella speranza di trovare tartarughe, sparavano alle poche gazzelle o agli altri animali selvaggi, oppure preparavano trappole per prendere topi, scoiattoli, roditori e gatti selvatici che si erano scavati le tane sottoterra. La gente del campo cucinava e mangiava tutto quello che capitava sottomano, cavallette e scarafaggi compresi. Erano i pasti più poveri che si possano immaginare: un paio di ossa cotte, brandelli di pelle, oppure quei pochi pezzetti di carne che si potevano ricavare da un uccellino. Io non ho mai partecipato alle battute di caccia perché non mangiavo carne. Non che avessi meno fame degli altri: il problema era proprio che non riuscivo ad affondare i denti in un soffice pezzo di muscolo, oppure a mangiare un brandello di carne strappato da una tartaruga. Tutti mi urlavano che ero pazza: preferivo morire piuttosto che mangiare qualcosa che non mi piaceva? Io però non avevo scelta. Anche se ero affamata, mi sarebbe bastato dare un morso a un pipistrello per vomitare subito. Mangiavo altre cose. Raccoglievo foglie un po' dappertutto. Facevo un fuoco con qualche rametto e le cuocevo in un barattolo arrugginito con un po' d'acqua argillosa. Non sapevano di niente, ma almeno avevo l'impressione di mettere qualcosa in pancia.A volte trovavo delle piccole rape nei campi abbandonati, oppure tuberi che cucinavo e mangiavo senza sapere che cosa fossero. Altre volte avevo ancora più fortuna e scovavo una cipolla che avevo già visto cuocere in pentola dai grandi. Le mie battute di caccia alle piante sono state particolarmente fruttuose soprattutto sul finire dell'estate, quando dappertutto sbocciavano i fiori di cactus, pieni di spine, ma molto succosi. Anche gli altri naturalmente mangiavano questi frutti: sfamavano e dissetavano allo stesso tempo. Purtroppo maturavano tutti insieme, e così dopo poche settimane, a causa del gran caldo, molti marcivano oppure si seccavano.A volte trovavo persino delle gaba, piccole noci selvatiche che molti non si prendevano neppure la briga di raccogliere proprio a causa delle loro dimensioni: spesso per aprire una noce occorreva più tempo di quanto ne servisse a mangiarne il contenuto. Io le cercavo lo stesso, me ne riempivo le tasche e poi passavo ore a romperle e a gustarle. Quando non riuscivo a trovare niente e la fame era così insopportabile da picchiarmi come un martello nella mente, mi calavo fin dentro il letto del fiume e mangiavo la terra. Toglievo lo strato esterno, ancora umido, fino a quando non arrivavo alla sabbia secca e la mangiavo. Manciata dopo manciata me la infilavo in bocca, e masticavo e ma¬sticavo fino a quando non riuscivo a inghiottirne un po'. Allora me ne mettevo in bocca altra e altra ancora, fino a quando non mi sentivo male. Il problema non era il sapore - la terra, soprattutto quando è secca, non è così disgustosa - ma il mal di pancia. Avevo crampi così forti che era come se qualcuno mi afferrasse lo stomaco e ne graffiasse le pareti. Alla fine vomitavo o mi veniva la diarrea. Non era piacevole, ma era sempre meglio che dover sopportare quella continua sensazione di vuoto. Era anche meglio essere chiamata "mangia-schifezze" che non mangiare niente del tutto. "Vigliacca!" mi gridavano. "Mangi quello che sei. Sei una schifezza perché mangi schifezze!" A me però non importava. "Quale essere umano mangia la terra?" mi chiedevano. "Io" rispondevo con orgoglio, e in quei momenti mi sentivo davvero speciale".
tratto da Senait G. Mehari, Cuore di fuoco, 171-174

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