mercoledì 25 febbraio 2009

Espressioni affettuose

«I migliori anni della mia vita»
Intervista al cardinale Carlo Maria Martini sul Concilio Vaticano II
Eminenza, qual è il Suo ricordo degli anni del Concilio?
Conservo soprattutto il ricordo dell'atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura che ci pervadeva. Ho trascorso durante il Concilio gli anni migliori della mia vita, non solo e non tanto perché avevo meno di quarant'anni, ma perché si usciva finalmente da un'atmosfera che sapeva un po' di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l'aria pura, si guardava al dialogo con tante altre realtà, e la Chiesa appariva veramente capace di affrontare il mondo moderno. Tutto questo, lo ripeto, ci dava una grande gioia e una forte carica di entusiasmo.
Secondo Lei, che cosa rimane oggi di quegli anni?
Sono rimaste senz'altro molte cose. Prima di tutto c'è da dire che quelli che l'hanno vissuto hanno fatto un passo importantissimo per la loro vita, perché hanno ricevuto dal Concilio una fiducia rinnovata nelle possibilità della Chiesa di parlare a tutti. Poi restano molti elementi contenuti nei vari documenti conciliari: penso alla liturgia, all'ecumenismo, al dialogo con le altre fedi, alla riflessione sulla Scrittura. Per la nostra Chiesa una grande ricchezza che mantiene intatta tutta la sua attualità e tutto il suo valore.
E invece a Suo giudizio che cosa si è perso?
Non è facile rispondere. Ci sono state certamente un po' di deviazioni, ma soprattutto all'estero, non qui da noi in Italia. Direi che ciò che si è perso è proprio quell'entusiasmo, quella fiducia di cui parlavo prima, quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia. Si è tornati un po' alle acque basse, a una certa mediocrità.
Alcuni dicono che il Concilio fu contrassegnato dal contrasto netto tra una maggioranza progressista, chiamiamola così, di vescovi e teologi e la Curia romana che remava contro. Condivide questa ricostruzione?
Sì, penso che in effetti ci sia stata questa contrapposizione. Non si può negare che in certi settori della Curia c'era una forza frenante. Ma questo è comprensibile, perché la Curia era abituata a fare tutti i decreti, a tenere in mano tutto, e quindi si può capire bene che per i curiali vedersi sfuggire di mano questo controllo non fu piacevole.
Eminenza, qual è il personaggio del Concilio che ricorda di più?
Ce ne sono davvero tanti. Mi piace ricordare dom Helder Camara, l'arcivescovo e teologo brasiliano, morto nel 1999. Sto leggendo proprio in questo periodo le lettere che indirizzava ai suoi amici in Brasile, scrivendole ogni notte alle due. Una grande figura! E poi ricordo il cardinale belga Leo Jozef Suenens, l'arcivescovo di Malines-Bruxelles che sostenne alcune tesi molto coraggiose. Fra le persone che non parteciparono direttamente ai lavori del Concilio, ma che furono molto vicine a quell'atmosfera di rinnovamento ricordo il padre gesuita Stanislas Lyonnet, grande studioso di san Paolo, che insegnava al Pontificio istituto biblico e che aveva molti contatti con i Padri Conciliari. Devo dire che fu un tempo di grandi amicizie alimentate da un fortissimo desiderio di conoscenza.
E oggi un Concilio Vaticano III sarebbe utile per la Chiesa?
Non è facile rispondere. C'è il pro e il contro. Secondo me certamente alla Chiesa servirebbe fare ogni tanto un Concilio per mettere a paragone i diversi linguaggi. Io avverto questa necessità, perché mi sembra che ci sia proprio una difficoltà nel capirsi. Non credo, però, che dovrebbe essere un Concilio come il Vaticano II, cioè dedicato a tutti i problemi della Chiesa e dei suoi rapporti con il mondo. Al centro di un eventuale nuovo Concilio bisognerebbe mettere soltanto uno o due temi e poi, una volta esaminati ed esauriti questi, convocare un altro Concilio dopo dieci, quindici anni, incentrandolo a sua volta su pochi argomenti. Sì, penso che dovrebbe essere questa la linea da seguire.
E Lei, che a Milano diede vita alla Cattedra dei non credenti, pensa che si potrebbe pensare a un Concilio aperto a chi non crede, ai più lontani, per lanciare un messaggio anche a loro?
Non vedo un Concilio di questo tipo. Però è certo che, quando parla, un Concilio parla anche ai non credenti. Perché la preoccupazione del Concilio, di ogni Concilio che sia veramente tale, deve essere quella di farsi capire e quindi di arrivare veramente a tutti, non solo ai cattolici. Nel Concilio Vaticano II questa preoccupazione fu ben presente ed è un altro motivo per cui lo ricordo con gioia e gratitudine.
Istituto Aloisianum, Gallarate, 11 giugno 2008

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