mercoledì 11 febbraio 2009

Riconciliazione

E ora una legge
di Franco Garelli
E così, alla fine, Eluana Englaro ha sorpreso tutti. Se n’è andata prima che il Parlamento potesse impedirglielo, prima che si consumasse l’uso politico di un caso umano, prima che l’Italia al suo capezzale potesse verificare se e quanto soffre un povero corpo quando non viene più alimentato artificialmente. Mai come in questo caso il nome della clinica in cui Eluana ha terminato i suoi giorni è risultato più controverso: la «Quiete» di Udine ha dato pace alle sofferenze di Eluana e della sua famiglia, ma ha alimentato la battaglia, in atto da tempo su questi temi, tra i fans della vita a tutti i costi e i sostenitori a oltranza della volontà individuale. La morte sopraggiunta ha certo richiamato ai più il senso del mistero e della compassione, ma ha surriscaldato molti animi nel Parlamento e nel Paese, con le parti in causa che si sono lanciate accuse infamanti. Colpisce in questa drammatica e triste vicenda - per i molti che la vivono in modo serio e non strumentale - la passione del confronto.
Colpisce l’irriducibilità delle posizioni. Le questioni di fine vita non sono gli unici temi etici che oggi interpellano a fondo l’opinione pubblica e le coscienze, in una società alle prese con molte emergenze (presenza massiccia d’immigrati, lavori sempre più precari, crisi economica e finanziaria, ecc.) che mettono a soqquadro le nostre convinzioni di fondo e chiedono nuove regole di convivenza. Tuttavia tra i problemi scomodi che la modernità porta con sé, un posto di assoluto rilievo spetta ai temi del significato e del confine della vita, della possibilità di autodeterminare il proprio vivere e morire, di quanto sia lecito far ricorso alla tecnologia per prolungare l’esistenza. E ciò, sia perché siamo talmente pervasi da un’alta idea di qualità della vita da rabbrividire all’ipotesi di un’esistenza meno degna; sia perché siamo attorniati da casi umani (anziani «assenti», malati terminali, giovani vite spezzate) che continuamente ci ricordano la rilevanza e la «prossimità» del problema.
Qui emerge la forte divergenza di posizioni e culture di cui il caso Englaro è assurto a simbolo. Per gli uni, Eluana era un guscio vuoto, un essere privo da molto tempo delle qualità umane, tenuto in vita da un sondino nasogastrico che sa di accanimento terapeutico, non potendo più far fronte in modo autonomo alle sue funzioni vitali. Le lesioni subite nell’incidente di 17 anni fa le avrebbero atrofizzato il cervello, impedendole la possibilità del risveglio. Con la morte della «corteccia» (la parte del cervello cui è legata la coscienza), tutto finisce e la pietà umana interviene per porre fine a una vita che non è più tale.
Ma proprio questi argomenti vengono contestati dai fautori di un’altra idea della vita. Quelli che vedono in casi come questi la presenza di un principio vitale (un corpo che ancora respira autonomamente, un cuore che continua a battere) che dev’essere salvaguardato. Anche con una coscienza dormiente o assente, c’è una vita da accompagnare e da rispettare; evitando dunque che il suo commiato sia accelerato, che la sospensione del sostegno vitale assuma la forma di un’eutanasia strisciante.
L’inconciliabilità delle posizioni, dunque, è evidente. Ciò che divide non è soltanto la diversa lettura di queste situazioni limite offerta dagli esperti (biomedici, giuristi), ma anche un differente modo di pensare la vita e la sua dignità. Ciò che per alcuni sono le condizioni base per vivere (vita con coscienza, principio di autodeterminazione) per altri rappresentano requisiti non sufficienti. Per alcuni interrompere in questi casi l’alimentazione e l’idratazione artificiale è un atto di pietà, per altri è un’omissione di risorse vitali e di affetti.
Da più parti si chiede che il dramma di Eluana non sia avvenuto invano, che la sua morte serva a ridurre le polemiche per lasciar spazio a una riflessione compiuta e costruttiva. In particolare, molti auspicano che la classe dirigente del Paese non aspetti altri casi Englaro per affrontare in modo organico la questione dei trattamenti di fine vita. Di qui l’attesa che il Parlamento vari finalmente quella legge sul testamento biologico sulla cui necessità c’è ampio consenso. Persino i Vescovi qualche mese fa si sono pronunciati a favore di un intervento in questo campo, dopo che per molto tempo l’avevano osteggiato. Tuttavia, il consenso deve tradursi in soluzioni concrete. A quale testamento biologico fare riferimento? Quali criteri e clausole introdurre? Come trovare punti di convergenza su questioni che dividono le coscienze e trasversalmente anche i gruppi sociali e politici?
Tra le questioni più calde v’è certamente la possibilità di interrompere (in condizioni particolari) l’alimentazione e l’idratazione artificiale e l’interrogativo di chi abbia il diritto di decidere e dei modi in cui la decisione dev’essere assunta. Nel primo caso si tratta di valutare le situazioni in cui il fornire cibo e acqua artificialmente si presenti come un atto di accanimento terapeutico; oppure se la loro sospensione si configuri come un atto eutanasico. Nel secondo, occorre senza dubbio riconoscere l’importanza della volontà del diretto interessato, ma nel quadro di una decisione che non risulti come un ricorso all’eutanasia (esclusa dalla legislazione italiana). Di qui l’importante funzione del medico, che - come avverte la Chiesa -, «in scienza e coscienza» e in dialogo con i familiari, contribuisca alla ricerca della soluzione da adottare. La strada dunque è irta di ostacoli. Ma da più parti si spera in una convergenza di orientamenti che ci offra una legge che per lo meno porti a scegliere il «male minore». Le posizioni si possono avvicinare se ognuno riconosce le buone ragioni degli altri e gioca al meglio le proprie risorse per arricchire la cultura della nazione.

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