Intervista con il cardinale Carlo Maria Martini
AFFIDIAMOCI ALLA SPERANZA
Intervista pubblicata sul quotidiano «Europa» il 28 dicembre 2007.
di Aldo Maria Valli - Gerusalemme
Il prossimo 15 febbraio compirà 81 anni e il parkinson lo sta mettendo a dura prova. Come se non bastasse, una polmonite presa qualche mese fa lo ha fortemente debilitato. Però il sorriso è più dolce che mai e lo sguardo è quello di un uomo buono, in pace con se stesso e con gli altri. Per camminare si aiuta con il bastone e quando si siede evita poltrone e divani perché non riuscirebbe più a rialzarsi, ma da lui non sentirete mai un lamento. Il cardinale Carlo Maria Martini invece non fa che ringraziare. A Gerusalemme vive nella sede del Pontificio istituto biblico, dove lo incontro.
Eminenza, come sta?
Sto abbastanza bene, come vede. Posso sopportare abbastanza il clima di qui, migliore di quello italiano perché è piuttosto stabile, senza grandi cambiamenti, che va bene per le persone anziane. E poi Gerusalemme sta in alto e l'aria è buona.
Come sono le sue giornate qui?
Sono divise fra tre grandi priorità: anzitutto la preghiera di intercessione per tutte le intenzioni che ho conosciuto a Milano e per tutte quelle che mi vengono raccomandate per questi popoli e per il mondo intero; poi un po' di studio, per quanto possibile, e poi qualche incontro, qualche momento di ritiro spirituale. Quindi le giornate passano molto in fretta.
Quando lasciò Milano, nel 2002, disse: «Vado a Gerusalemme avvinto dallo Spirito senza sapere che cosa mi capiterà». Adesso può fare un bilancio di che cosa le è capitato?
Mi è capitato che lo Spirito mi ha condotto giorno dopo giorno e mi riserva sempre sorprese, che riguardano anche il futuro. Non bisogna mai adagiarsi sul presente!
Che cosa le sta insegnando questa esperienza?
Mi sembra che mi stia insegnando soprattutto due cose: la pazienza e la fiducia. Uno vorrebbe sempre la soluzione immediata dei problemi e invece bisogna affidarsi alla provvidenza, allo scorrere del tempo. Bisogna saper aspettare, e la gente qui insegna molto a essere pazienti e fiduciosi.Gerusalemme è più città di pace o di conflitto? Esteriormente sembra più di conflitto, ma per chi la conosce dall’intemo è una città in cui c'è molta preghiera, c'è molto dialogo, e ci sono molti tentativi di incontro. Quindi direi una città che desidera fortemente la pace, anche se fatica a ottenerla.
Lei riesce a immaginarsela questa pace?
Non credo che sia immaginabile con criteri politici, che d'altra parte sono alieni da me. Ma la posso immaginare molto bene come dono di Dio, questo sì.
Lei pensa davvero che i cristiani potrebbero sparire da questa terra?
Certamente il numero dei cristiani qui sta diminuendo, e quindi bisogna aiutarli a far sì che possano fermarsi e restare. Non solo come singoli ma come comunità cristiana che testimonia il vangelo.Da questo suo osservatorio come vede la Chiesa nel mondo?Da questo osservatorio in realtà io non cerco di vedere ma di pregare. Sto con le braccia alzate, pregando per tutte le intenzioni della Chiesa. Non voglio giudicare ma unicamente intercedere.
E questo anche per la Chiesa italiana?
Anche per la Chiesa italiana.Più di quarantanni fa Paolo VI scrisse che questo nostro mondo moderno offre non una ma cento ferme di possibile contatto con la Chiesa. Secondo lei nella Chiesa di oggi c'è ancora questa fiducia o prevale forse un po' di timore? C'è un po' di timore, però la gente semplice ha molta fiducia. Quindi bisogna puntare su questa fiducia e soprattutto fare atti di fiducia.
Che cosa pensa del messaggio del papa per la giornata mondiale della pace che si celebra il primo gennaio?
Mi pare che tocchi un tema fondamentale, che è quello della famiglia. La famiglia è veramente un luogo in cui ci si educa alla pace e da cui nascono le premesse per una pace mondiale. Bisogna guardare di più a queste piccole cose iniziali, non soltanto ai grandi risultali.
Una volta lei disse di aver sognato un Concilio Vaticano terzo. È un sogno che è tornato?
Non ho mai parlato di un Concilio vaticano terzo per non dare impressione di una ripetizione del Vaticano secondo, che si è svolto dopo secoli di non riflessione collettiva e quindi ha preso in esame tanti temi. Vedrei piuttosto dei concili che prendessero uno o due temi e quindi fossero molto ben delimitati nel loro scopo.
E quali potrebbero essere questi temi?
Io credo che, per esempio, quello della parola di Dio sarebbe un bellissimo argomento, e fra l’altro è anche quello del prossimo sinodo. E poi indicherei la famiglia.
Eminenza, la messa la dice in italiano o in latino?
A seconda delle situazioni scelgo l’italiano o l’inglese, ma qui quasi sempre in inglese perché è la lingua che si parla nella nostra casa.
Come giudica l’enciclica del Papa sulla speranza?
La giudico molto bene. E’ una bella enciclica, in qualche parte un po’ difficile, ma vorrei che tutti la leggessero con impegno perché va al fondo della speranza e la mette in relazione con tutte le speranze quotidiane e anche con le speranze fasulle e poco fondate. Quindi credo che serva molto bene per criticare certi concetti odierni di speranza.
Fino a pochi decenni fa sembrava che la religione dovesse sparire dall’orizzonte pubblico e diventare solo un fatto privato, invece ora la ritroviamo continuamente nel dibattito pubblico e nelle pagine culturali dei giornali. Come giudica questo fenomeno?
Non solo positivamente. Certamente è positivo che si parli di religione, però bisogna che questo interesse sia portato da una vera fede, da un vero amore al Vangelo e non soltanto dal desiderio di contarsi e di contare.
Si dice spesso che viviamo in una società secolarizzata, poi però succede, per esempio, che un libro dedicato all’anima come quello del teologo Vito Mancuso, «L’anima e suo destino», venga ristampato più volte nel giro di poche settimane. Secondo lei perché?
Ho detto più volte che la nostra società italiana non è secolarizzata se non in parte. In tanti ambienti c’è una profonda ricerca di valori. Nel caso specifico, credo che il libro di Mancuso abbia avuto il merito di suscitare interessi che sembravano spariti e invece esistono.
La stampa straniera, come di recente il New York times, dipinge l’Italia come un Paese vecchio e senza speranza. Condivide?
Non condivido del tutto. In parte sì, ma l’Italia è un Paese che a me appare piuttosto spensierato e giocherellone, specialmente quando lo paragono ad altri Paesi del mondo dove c’è molta sofferenza. Però in verità dietro questa facciata, che nasce un po’ dai mass media e dalla televisione, c’è serietà e preoccupazione, e c’è anche sofferenza. Quindi c’è un cammino molto serio e molto arduo.
Nella sua città d’origine, Torino, sei operai sono morti bruciati in un’acciaieria. Che cosa prova di fronte a questi fatti?
Un immenso dolore, un’immensa sofferenza per queste persone, e il desiderio che si faccia di tutto per evitare che questi fatti si ripetano.
Le capita qualche volta di avere paura? E di che cosa?
Paura non direi. Siamo nelle mani di Dio e quindi bisogna piuttosto affidarsi, avere questo senso di speranza e di pace.
Come convive con la sua malattia, con il parkinson?
Bene perché so che in certe ore non posso contare molto su di me e quindi devo, con pazienza, prendere i tempi buoni e quelli meno buoni.
Quale augurio si sente di fare agli italiani per queste feste?
L’augurio lo prendo dall’enciclica del Papa. È l’augurio di una grande speranza, una speranza che sia efficace, una speranza che sia affidabile, una speranza che porti a superare le difficoltà della vita quotidiana con grande coraggio. E questo messaggio, lo sottolineo, viene da Gerusalemme e da Betlemme, cioè luoghi nei quali furono pronunciate le parole più alte di speranza, ma sono successi anche eventi che hanno portato disperazione. Però la speranza è più forte, e questo è il messaggio che vorrei rimanesse impresso in tutti.
http://www.chiesadimilano.it/or4/or?uid=ADMIesy.main.index&oid=931666
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