Le favole di mammadi Massimo GramelliniScrive una lettrice milanese, piuttosto sconvolta. «Sto portando mio figlio a scuola con il tram. Dietro di me una donna grida ai quattro venti la trama del film che ha visto la sera prima al cinema: “E allora il papà va a prendere la mamma, la porta in un bosco e le fa un po’ male". Poi continua a raccontare, fino al momento in cui il protagonista uccide i propri figli. A quel punto sento una vocina che la interrompe: "Perché ha ammazzato i bimbi e non si è ammazzato lui?". Così scopro che la tipa che racconta a squarciagola è una mamma e le ascoltatrici le sue figlie, di 8 e 10 anni circa. Ma il bello è la risposta: "Sai, il papà era stressato, non li vedeva da un sacco e gli voleva troppo bene: se si ammazzava lui, poi loro erano senza papà, invece così…" Io mi giro per incenerirla e vedo una mamma giovane e carina, benvestita, che mi sorride con lo sguardo soddisfatto e complice di chi ha appena dato una lezione d’amore, di cinema e di vita alle sue figlie e a tutto il tram».
La storiella è una miniera di spunti per i teorici della decadenza dei costumi. A me, che resto comunque un ottimista (forse perché viaggio poco in tram), colpisce soprattutto l’impoverimento del linguaggio. Non sono finite le favole. Sono finite le parole. Quelle cucite apposta per i più piccoli. Oggi si mastica un unico idioma digeribile da tutti i palati, grandi e piccini. L’equivalente semantico del Big Mac. Non solo quella mamma non sa «di cosa» parlare a sua figlia. Non sa «come» parlarle. E questo, per certi versi, mi sembra ancora più grave.
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