giovedì 7 maggio 2009

Ascolto con immutata passione

Quando ero cristiano…
by Mario Domina
Andrebbe aggiunto al titolo: e sottolineo quell’ero, anche se periodicamente mi vengono dei dubbi proprio sul tempo imperfetto. Per una certa fase della mia vita, anche se breve, lo sono stato, certo, e anche in maniera profonda e convinta. Ho bazzicato chiese e raduni, condividendo linguaggi, fedi, convinzioni, speranze. Poi, nell’ultimo quarto di secolo, ho proceduto ad una inesorabile scristianizzazione della mia vita, quasi si trattasse di estirpare erbacce o di eliminare tossine dal mio corpo. Prima ero cristiano, cioè superstizioso, poi sono cresciuto e ho cominciato a ragionare con la mia testa.
Rimane il fatto che non si può uscire dalla propria epoca - è ancora Hegel ad illuminarci con le sue puntuali metafore - più di quanto non si possa cambiar pelle… Come dire: le strutture profonde, e spesso inconsce, della cultura, del linguaggio, del Dasein, ci inchiodano ad un modo di essere del quale non si può disporre a piacimento. Volenti o nolenti, qualcosa di quel complesso che definiamo “tradizione” si è depositato per sempre nelle nostre testoline, e, per quanto noi la rifiutiamo, espungiamo e vomitiamo fuori, un po’ di scorie e di residui restano depositati da qualche parte. E anzi questi “resti” del passato si intrecciano talvolta così inestricabilmente coi nostri vissuti, che non è più possibile reciderli o scrostarli del tutto. In definitiva: non sarei quel che sono senza quella parentesi cristiana. Non dico che sarei migliore, o peggiore; sarei solo diverso.
D’altro canto, non trovo più nemmeno così disdicevole o scandaloso che alcuni elementi del cristianesimo (che è parte importante, anche se non esclusiva, del patrimonio culturale dell’Occidente, e quindi dell’umanesimo planetario) siano entrati a far parte del mio Dna. Ha ragione Lukàcs quando critica Nietzsche (che pure sento vicino per varie questioni) a proposito del suo militante anti-cristianesimo: c’è lì anche, se non soprattutto, una buona dose di anti-socialismo e una profonda avversione per il concetto di uguaglianza.
Viceversa, trovo aberranti non pochi altri elementi che da secoli ci trasciniamo come zavorre (e questa volta Nietzsche ha ragione), e dalle quali pare non ci si riesca a liberare (spero che almeno di questi mi sia liberato davvero).
A tal proposito ricordo che la mia amica Donatella, che non poco avrebbe contribuito all’opera di scristianizzazione, ma che era anche molto cauta e rispettosa delle mie divergenti opinioni di giovane ribelle spiritual-idealista, mi disse una volta all’incirca: “d’accordo, posso capire che tu sia credente; passi che tu sia religioso; vada anche per il cristiano; ma cattolico… questo proprio non lo capisco…”. In effetti il mio rapporto con i preti e con l’autorità ecclesiastica è stata piuttosto problematica. Semplicemente trovavo insopportabile, e drasticamente in contraddizione con il messaggio originario del cristianesimo, che ci fossero nella Sacra Romana Chiesa gerarchie, poteri e tonnellate di ipocrisia: il tutto suonava come molto temporale (ancora!) e troppo poco spirituale per i miei gusti. E poi c’erano stati quei duemila anni di nefandezze… Insomma, non poteva durare a lungo.
Ma non era di cose ecclesiastiche che volevo parlare in questo post “simil-pasquale”, anche perché richiederebbero tempo ed energia ben superiori a quelli che intendo spendervi. Era sulla figura di Gesù, sul caro buon vecchio Gesù Cristo, che volevo dire qualcosa, dato che manca ormai poco all’alba, e sto vegliando sul limitare del suo sepolcro…
Sì, perché mi sono messo in testa che prima o poi devo scrivere qualcosa su di lui. Sarà per quell’aria mitica e ribellistica che promana da certa iconografia tardonovecentesca della quale mi sono imbevuto per anni (sono sempre stato un fervente ammiratore del musical-poi-film Jesus Christ Superstar); o perché le Vite di Gesù hanno sempre un certo fascino (da Hegel a Saramago), anche e soprattutto quando sono dissacranti; o perché, di nuovo, mi toccherà prima o poi fare i conti con il mio passato cristiano…
Certo, di Gesù non può non colpire quel suo essere una figura di rottura radicale: la promessa di un mondo nuovo, di un uomo nuovo, la salvezza, la liberazione, la critica dei vecchi valori e del mondo degli scribi e dei farisei (com’è che questo fatto non turba le coscienze delle attuali gerarchie ecclesiastiche?), quella posa eroica e plastica quando ad esempio rovescia i tavoli dei mercanti nel tempio, quell’amore incondizionato per gli ultimi e i diseredati, per le donne maltrattate, la sua scandalosa relazione con una prostituta, la dolcezza nei confronti dei bambini, la follia di consegnarsi al potere inerme e di morire per… già, per che cosa?
Naturalmente nulla sapremmo di tutto questo, se il concorso storico non avesse pescato nel mazzo delle mille dottrine escatologiche e soteriologiche diffuse in ogni dove a quell’epoca, fissandone una e facendola diventare religione dell’impero romano e poi del mondo occidentale e poi di un pezzo di pianeta. Ometto qui di parlare dell’opera certosina dei “padri della chiesa” e, poi, dei teologi, per costruire tutto quell’apparato concettuale prendendo a piene mani dalla tradizione classica e dalla filosofia greca. Sappiamo bene com’è andata.
Ma tutto questo prescinde, almeno in parte, dalla figura di Gesù. Lui ha una potenza simbolica, per quanto contraddittoria, tutta sua. Un misto di grandezza e di dabbenaggine, di sciatte parabole e di perle di saggezza, di voli pindarici e inconcludenti sostenuti però da una dedizione e da un’ispirazione assoluta. Un eroe romantico e un rivoluzionario ante litteram. Poco importa chi sia stato davvero, se fosse o meno l’ultimo profeta o l’ultimo dei ciarlatani: Gesù Cristo è ancora qui tra noi, e non accenna a tramontare. Tramonteranno le sue chiese, ma lui no.
Forse perché è un ibrido, un giano bifronte: terrestre e celeste, vivente e morente, divino e mortale, carne-sangue e anima, iperuranio e ultimo tra gli ultimi, padrone e servo; forse perché allude costantemente a quell’oltre, al nuovo, ad un compimento delle epoche; o perché è il simbolo della resurrezione (e dunque dell’intramontabile sogno dell’immortalità); io sono la via, la verità, la vita: e chi non lo seguirebbe se fosse davvero così? Dritto, fino alla gloria dei cieli!
O magari, più semplicemente, si sono contratti in quella figura così tanti simboli, significati, metafore, gli si è addossato così tanto materiale iconografico, estetico, letterario, una ipertrofia di elementi millenaria e millenaristica da risultare alla fin fine solo una grande narrazione - una grande illusione - una vuota, inutile e inconcludente icona. Qualcosa che un giorno verrà ricordato come un mito tra gli altri…
E comunque, per quanto mi sforzi di rievocare, non ricordo particolari emozioni o aneliti extraumani quando, in quella breve parentesi della mia vita, ne ingoiavo il corpo, ne leggevo gli insegnamenti o ne commemoravo le gesta. Detestavo il natale - per quel suo crescente “paganesimo” consumistico - non comprendendo l’immenso significato che per noi umani ha la nascita (del resto all’epoca non conoscevo ancora Hanna Arendt); però ero turbato e profondamente commosso dalla passione e dalle cerimonie che accompagnavano il ricordo della sua morte. Il Gesù fragile dell’abbandono, della solitudine, dell’angoscia, della pietà, dell’agonia. Tanto per cambiare: l’alfa e l’omega, e la ricerca del significato di quel che sta nel mezzo.
Ma questo è, tutto sommato, umano, troppo umano: che bisogno c’era di spacciarsi per il figlio di Dio, con tutto quel che ne è seguito in termini di spaccio e di consumo diffuso e persistente di oppiacei?

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