giovedì 3 aprile 2008

"Urla del silenzio"


E' morto negli Usa Dith Pran. Illuminò con il proprio coraggio i "killing fields" di Pol Pot
In un libro e in un film premio Oscar la battaglia al fianco dell'inviato del NYT Schanberg
Cambogia, addio al fotografo delle "Urla del silenzio"
dal nostro inviato Vittorio Zucconi - WASHINGTON - La malattia lo aveva ridotto come soltanto Pol Pot era riuscito a fare, una foglia secca d'uomo posata sulle lenzuola di un ospedale del New Jersey che i suoi 35 chili neppure increspavano. Dith Pran, il fotografo cambogiano che illuminò con il proprio coraggio quasi incomprensibile i "campi della morte" dei khmer rossi, è volato via ieri a 65 anni, con un solo grande rimpianto, quello di non avere visto Pol Pot processato e chiamato a rispondere dei due milioni di innocenti, a volte colpevoli soltanto di possedere un orologio da polso o un diploma di scuola media, segni di sfacciata ricchezza borghese e di acculturazione occidentale. Di quegli anni, e di quest'uomo, il mondo che aveva guardato e letto con sbigottimento l'odissea disumana per sopravvivere ai 5 anni di follia omicida polpottiana, si era largamente dimenticato, distratto da altre follie e dall'accavallarsi instancabile di altre ondate di sangue. Dith Pran non lavorava più da tempo, corroso da un tumore al pancreas. Ma senza di lui, senza il collega americano Sydney Schanberg che lo aveva assunto a Phnom Penh e non aveva mai rinunciato a ricordarlo, anche l'olocausto polpottiano sarebbe rimasto oscuro. E i due milioni di morti sarebbero stati licenziati come una montatura anticomunista, secondo la stessa legge del revisionismo che oggi minimizza o nega addirittura la shoah ebraica. Era l'aprile del 1975, 33 anni or sono che sembrano un altro millennio, quando i Khmer Rouge di Saloth Sar, alias Pol Pot, alias "Il Grande Zio", alias "Il Primogenito", presero il controllo della Cambogia, da lui ribattezzata Kampuchea, e proclamarono quell'anno "l'Anno Zero" della costruzione di un comunismo rurale e primitivista, capace di purgare tutte le influenza tossiche dell'Occidente che la guerra fra il vicino Vietnam e gli Stati Uniti avevano iniettato in una terra dolce e mite come fino alla guerra la Cambogia era. Dith, che aveva assistito Schanberg nelle sue corrispondenze dalla capitale Phnom Penh e aveva salutato sul New York Times il ritiro degli americani nel 1973 come "l'avvento di un tempo di libertà e di pace per questa regione" dovette constatare direttamente di quale pace e libertà fossero portatori i primitivisti del "Grande Zio". Mentre migliaia, e poi milioni, di cambogiani, venivano tradotti in marce forzate, verso le risaie, i campi, i gulag dove sarebbe stato rieducati a colpi di bambù, di esecuzioni sommarie, di lavoro manuale 24 ore al giorno e diete a base di una ciotola di acqua della bollitura del riso con qualche chicco di grano sparso dentro, il giornalista del Times riuscì a partire. Ma non il suo assistente e fotografo, Dith Pran, macchiato indelebilmente dalla collaborazione con un "imperialista" e quindi sospetto di essere un uomo della Cia, o del Kgb, perché la paranoia di Pol Pot non risparmiava - come vedremo a ragione - neppure i traditori sovietici. Per 5 anni, osservando lo sterminio di un popolo senza altra colpa che di essersi trovato come la noce nella morsa dello schiaccianoci della Guerra Fredda divenuta laggiù rovente, l'ometto che arrivò a pesare 40 chili, sopravvisse, documentò, registrò. E portò in Thailandia, dopo una marcia di mesi nella giungla tropicale, il ricordo di quei killing fields, come lui li battezzò, dei campi della morte dove un terzo della popolazione cambogiana lasciò la vita. Ne uscirono un libro, un film divenuto giustamente famoso, e un premio Pulitzer per Schanberg, che anni dopo sarà licenziato con rabbia dal New York Times che lo aveva confinato al city desk, alla cronaca locale, dove lui fremeva, nell'incurabile sofferenza e irrequietezza del reduce disadattato. Lui stesso vinse importanti premi giornalistici e fotografici, divenne ambasciatore di buona volontà per l'Onu, battendosi per ricordare quella e altre tragedie delle ideologie, dei fondamentalismi di tutte le religioni militanti e dell'odio. Ma soprattutto, Dith Pran, che vide un proprio collega sopravvissuto ai "campi" ucciso in una rapina nel Bronx e fu lui stesso aggredito e derubato uscendo dopo un turno di notte al servizio fotografico del Times (la direzione lo ricollocò nel lavoro di giorno, per evitarsi l'imbarazzo del survivor dei campi della morte ammazzato a Times Square), fu uno dei più devastanti colpi inferti a quei miti del "comunismo asiatico" che prima le Guardie Rosse di Mao e poi i Vietcong di Ho Chi Minh avevano creato, in chi non li doveva vivere di persona. Furono proprio le truppe del Vietnam ormai riunificato sotto il controllo del Nord, spinto da Mosca, a intervenire a spazzare via Pol Pot e i Khmer nel 1978, mentre l'ometto che aveva aperto la gabbia di bambù e svelato il massacro si sposava a New York, aveva tre figli e una decina di nipoti, si vedeva onorato e riconosciuto per quello che era, un eroe modesto della virtù più difficile, la testimonianza giornalistica in prima persona. Nessuno saprà mai esattamente quanti innocenti esseri umani siano stati annientati dalle allucinazioni egalitariste e primitiviste dei Khmer. Si va dai 2 milioni e 300 mila calcolati dal francese Francois Ponchaud agli 800 mila dati dallo stesso Pol Pot. "Noi cambogiani - dirà il fotografo che demolì un silenzio - sappiamo che il corpo è soltanto una scatoletta di legno fradicia, dalla quale l'anima prima o poi volerà via come un uccello finalmente libera" e la sua ultima foto ce lo mostra ormai consunto, ma ancora sorridente. "Mi addolora soltanto non avere mai potuto vedere Pol Pot processato davanti al mondo". Non si era mai considerato un eroe, un martire, forse neppure un giornalista chiamato a chissà quali missioni di verità, ma soltanto uno di quelli che sopravvivono sempre anche al più sistematico e puntiglioso degli stermini. Dith era l'incubo di despoti e dei massacratori attraverso la storia: quello che torna da loro inferno per raccontarci come è fatto.
(31 marzo 2008)

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