"A noi certe cose non succedono": così scriveva, dopo un paio di giorni dall’omicidio di Abdul Salam Guibre, un giornalista sulle colonne di un quotidiano di destra. La frase è terribile e tuttavia riassume il pensiero di molti cittadini milanesi, di quei tanti cittadini “normali” che sono maggioranza e che fanno la città. Non è solo la politica che nell’ultimo decennio ha definitivamente tracimato, divenendo spazzatura: è la cosiddetta società civile che non c’è più, è l’opinione pubblica che straparla, è lo spirito del tempo – se l’espressione vuol mai dire qualcosa – che si è incarognito. È necessario riconoscere che negli ultimi vent’anni la situazione non è affatto migliorata: la diffidenza è divenuta dapprima discriminazione per poi evolvere in razzismo palese. Il problema oggi sono gli “italiani bianchi”, quello che pensano o che ritengono di pensare.
Il Veneto tra razzismo e integrazione«La prima volta ho pensato a un errore. La seconda a una coincidenza. La terza ho capito, stava succedendo proprio a me». Silvia Elena Ayon è nata 44 anni fa in Nicaragua, ha una laurea in economia urbana, un marito e un figlio italiani, due grandi occhi scuri che parlano della sua origine. Coordina progetti di sviluppo in due continenti, di fatto amministra circa 41 milioni di euro per conto dell’ Unione europea e di altri finanziatori pubblici. Lavora nel volontariato ma è a tutti gli effetti una manager. Il 14 maggio è su un autobus della linea 12, diretto in zona stadio, periferia di Verona. Un signore anziano la avvicina e le dice: «Spostati, quel posto è mio». Lei crede di aver capito male, gli indica altri sedili liberi. Lui si mette a urlare: «Voi stranieri ve ne dovete andare, dovete smetterla di portare via il lavoro a noi italiani». Elena urla a sua volta, quasi si vergogna di provare rancore verso un anziano. Ma davanti al silenzio degli altri passeggeri le si accappona la pelle, il gelo le si infila tra le scapole, come il gomito di quella signora che, qualche giorno prima, su un autobus molto più affollato, le ha detto di andarsene. Era proprio così, quella gomitata non era «un errore». È lo stesso freddo nelle ossa che ha avvertito in treno, quando alcuni viaggiatori hanno indicato lei e suo figlio al controllore, chiamandoli "stranieri". Accade a Verona, dove Nicola Tommasoli, disegnatore non ancora trentenne, è stato ucciso a calci e pugni per aver rifiutato una sigaretta a una ronda di diciottenni con un debole per l’estrema destra. Nicola aveva i capelli lunghi, raccolti in una crocchia. Prima di picchiarlo, lo hanno chiamato "codino".
Accade, paradossalmente, nella stessa città che ospita il quartier generale dei padri comboniani e ha visto missionari partire verso i luoghi più poveri e disperati del pianeta. Nella città dove ogni giorno almeno un imprenditore bussa allo sportello "stranieri" della Cisl lamentando di non poter assumere lavoratori immigrati, causa intoppi burocratici e legislativi; dove i nuovi assunti di nazionalità straniera sono il 31%, la quota più elevata del Veneto (fonte: dossier Caritas 2007). Sempre a Verona, ogni anno, mille persone bussano alla porta di ProgettoMondo, l’Ong per cui lavora la signora Ayon, chiedendo di partecipare a questo o quel progetto di cooperazione oltre frontiera. (...)
Certi episodi rimangono di difficile classificazione, ammette Boscaini. «L’altro giorno, un fratello degli stimmatini (congregazione che prende il nome dalle stimmate di Gesù ndr), raccontava l’avventuroso approdo veronese di un frate della Costa d’Avorio. Ha chiesto a quattro passanti la strada per il convento, i primi tre non gli hanno nemmeno rivolto la parola». Strano a vedersi in una città che vanta 50 congregazioni religiose femminili e 30 maschili, dove quasi ogni famiglia a un parente che fa il sacerdote, è entrato in convento oppure fa il missionario. L’anima di Verona è profondamente divisa, spiega Boscaini. Tutte le famiglie, religiose e non, sono attraversate da una profonda lacerazione. (...)
da L’Unità di venerdì 19 settembre 2008
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