martedì 28 aprile 2009

Casa, amara casa

La casa è un bene primario. Per tutti
L’appello del cardinale Tettamanzi il Venerdì Santo: «Chi non ha da tempo un’abitazione dignitosa per sé e la propria famiglia, si sente umiliato nel vedere sorgere esclusive residenze e palazzi di lusso nei quali mai potrà abitare perché troppo costosi»
di Pino Nardi
«Milano ha bisogno di un segno molto forte sulla questione casa. Ma non mi sembra che il Comune sia nelle condizioni di poterlo dare: non ha la volontà, le possibilità e in questo momento non mi pare un soggetto sensibile su questo tema». Lo sostiene Gabriele Rabaiotti, ricercatore presso il Dipartimento di architettura e pianificazione al Politecnico e collaboratore con l’area politiche urbane dell’Istituto per la ricerca sociale. Da oltre un anno è l’ispiratore di quel progetto, sollecitato dai parroci milanesi, della creazione di un’agenzia che consenta di dare garanzie ai proprietari per affitti a prezzo calmierato. Un proposta ben vista dal cardinale Tettamanzi, che l’architetto rilancia come strada per sbloccare un mercato ingessato. Un tema, quello dell’emergenza-casa, rilanciato anche dall’Arcivescovo nell’omelia del Venerdì Santo. Il Cardinale ha sottolineato che una famiglia non riesce a sostenere un affitto e neanche un mutuo, perché i prezzi sono troppo alti. La soluzione è costruire più case, oppure fare in modo che vengano affittate o vendute quelle che già ci sono?
In Italia non c’è un problema di quantità, perché abbiamo 130 case ogni cento famiglie. Nelle città, c’è una media del 10% di sfitto, che non è poco. Quindi la questione è più redistributiva che non espansiva: cioè serve capire in quali modi riuscire a portare oggi il patrimonio non utilizzato verso l’uso socialmente più utile, piuttosto che non costruire nuove case. Abbiamo una città di case senza abitanti e abitanti senza una casa. Il mercato va avanti da anni a costruire e a lasciarle vuote.
Perché?
Perché la casa è un investimento, non è un bene d’uso. Per chi costruisce e chi compra è un investimento, alternativo all’andare in Borsa ad acquistare azioni. Ecco perché poi la casa resta vuota: siccome si ha un’aspettativa di remunerazione, non si affitta a costi contenuti.
Ma quando si tiene una casa sfitta non la si lascia “morire”?
Certo. Nei Paesi d’Europa l’affitto è mediamente al 40% rispetto al patrimonio immobiliare. Da noi è al 20% e sta continuamente diminuendo, perché noi ci appoggiamo alle rendite passive: compriamo e aspettiamo che il bene si valorizzi nel tempo. Se affittassimo, invece, avremmo già messo in tasca un terzo di quell’investimento. Il problema è anche culturale.
Quale contributo potrebbero dare il Comune e le altre istituzioni pubbliche?
Potrebbero sviluppare due linee, tentate in altre città. Il Comune di Torino, per fare in modo che venisse spostato il patrimonio inutilizzato o affittato a costi molto alti, si è introdotto in un mercato calmierato con un assegno di 1.500 euro (l’anticipo della cauzione per i primi sei mesi) dato ai proprietari che accettano affitti concordati a canoni contenuti. È un incentivo, ma a Milano questo non è accaduto. Inoltre nella metropoli lombarda dal 1999 non si aggiorna il canone concordato. Se non lo si fa, nessuno lo applicherà mai.
È troppo basso, insomma...
Esatto. I sindacati inquilini e i proprietari immobiliari sembra che non abbiano interesse ad aggiornare questo canone. I primi perché continuano così a sostenere che servono case popolari; i secondi perché hanno interesse a mantenere i contratti di affitto molto alti e se rendono praticabile il canone concordato è evidente che c’è anche un terzo mercato che sfugge al controllo delle rendite più speculative. Dunque, un interesse congiunto per bloccare la questione.
E l’altra linea di impegno?
Il secondo esempio è che il Comune di Milano ha messo a bando - chiuso qualche mese fa - otto aree pubbliche di sua proprietà destinate a standard e servizi e rese edificabili, a detta del Comune stesso, per massimizzare l’offerta di case in locazione a basso costo. Ebbene, se si guardano i risultati, hanno vinto imprese che hanno proposto meno case in affitto di altre. Allora forse serviva più a dare nuove aree ai costruttori tradizionali - una lobby molto forte a Milano - che non a sviluppare veramente il patrimonio in locazione a basso costo in una città che non ne ha.
I cattolici possono fare qualcosa?
Certo. Il patrimonio di mezzo è fatto anche delle tante case che chi frequenta le parrocchie è riuscito a realizzare, grazie a tempi più fortunati, magari per i propri figli, che però sono oggi in altre città a lavorare. Un patrimonio che resta sfitto o affittato sul mercato in forma speculativa. Un uso più sociale di questo investimento immobiliare, legittimo e giustificato, può però trovare un campo più utile e interessante per essere praticato. Allora perché non proporre di mettere queste case in locazione a costi contenuti?.
Come ha proposto il Cardinale nel Percorso pastorale...
Bisognerebbe realizzare un’iniziativa come il piano nuove chiese. Abbiamo costruito le chiese in periferia, ma lì ci sono anche le case. Serve un bel piano di comunicazione, un’uscita pubblica importante e l’agenzia ipotizzata diventa uno strumento per farlo. Abbiamo le possibilità per dare un segno forte a questa città. Ma bisogna avere più coraggio.

Casa popolare? Come vincere la "lotteria".
Bisogna costruire nuove case popolari a Milano? «Su questo le posizioni sono diverse. Ritengo che se non sviluppiamo l’offerta di mezzo tra quella pubblica (case popolari) e quella privata (il mercato), non usciamo da questa crisi - risponde Gabriele Rabaiotti -. La questione è riuscire a muovere le famiglie che vent’anni fa hanno avuto la casa popolare - perché c’è altra gente che ne ha più bisogno -, accedendo a un mercato calmierato in affitto a costi contenuti, ma non così bassi. Mediamente abbiamo una famiglia su quattro che non ha più i requisiti di reddito per restare in quelle case, ma nessuno le sposta anche perché non c’è l’alternativa. Dove le portiamo, sul mercato? Quindi restano lì e la casa viene ereditata dal figlio. Delle 60 mila case a Milano, tra patrimonio Aler e comunale, togliamo il 25% di chi non ha più diritto, abbiamo 12 mila alloggi che sono quelli che servono per le nuove domande che arrivano sistematicamente ogni sei mesi ai bandi. Ma la mobilità non esiste, perché non c’è un’offerta di case nuove in locazione a costi contenuti». E quindi? «Bisogna avere una visione delle politiche promozionale e non assistenziale. La casa popolare è per i primi 12 mila fortunati e non la prenderà più nessuno. È come vincere la lotteria. Questo non può funzionare, tenendo presente che non ci sono le risorse per farne altre 12 mila. Il Comune, attraverso leggi regionali, ha ripreso la vendita delle case popolari e si sa che ogni tre vendute ne farà una. Altro che costruirne di nuove, stiamo perdendo anche quelle che esistono».

Nessun commento: