martedì 13 gennaio 2009

La questione di fondo

Il senso del sacro val bene la messa in latino?
di Franco Garelli
Chiunque guardi ai fenomeni religiosi d’oggi non può non stupirsi del grande investimento che il Vaticano e il Papa continuano a fare sul ritorno della messa in latino. È recente il grido d’allarme del centro della cattolicità per i vescovi italiani che ostacolano l’antico rito, che fa seguito al monito di Benedetto XVI all’episcopato di Francia perché sulla questione della liturgia non si strappi ulteriormente «la tunica senza cuciture del Cristo». Nel mirino non c’è, dunque, solo la riottosa Francia, ma anche l’episcopato italiano tradizionalmente più elastico verso i cambi di registro della Santa Sede; e pure la Chiesa tedesca, da cui Ratzinger proviene e dove oggi più forte spira il vento della tradizione.
Viene da chiedersi se la questione del latino sia davvero così decisiva per una Chiesa cattolica che è alle prese con le molte sfide cui la espone l’annuncio cristiano nella società pluralistica. Non si stanno affrontando nella cattolicità due diverse visioni di Chiesa? Quanto i fautori del ritorno al latino fanno i conti con le concrete situazioni in cui operano i vescovi e il clero?
Dietro il motu proprio del Papa sulla reintroduzione del latino vi sono certamente varie preoccupazioni e intenti. Anzitutto creare un ponte nei confronti dei cattolici più tradizionalisti (e in particolare dei lefebvriani), per ristabilire la comunione con una quota di credenti che hanno rotto con la Chiesa di Roma a seguito delle aperture del Concilio Vaticano II. La Santa Sede inoltre dichiara di ricevere sempre più proteste di fedeli delusi di non trovare nelle chiese locali la possibilità di assistere alla messa in latino, che si sentono quindi ai margini di comunità che non rispettano la loro sensibilità religiosa. Ma l’argomento forse più forte a sostegno del ritorno alla liturgia del passato è individuabile nel giudizio che «il rito moderno ha distrutto il senso del sacro». La riforma liturgica ha certamente dato adito a esagerazioni e abusi, con alcuni riti rivolti più alla centralità dell’uomo che a quella di Dio, più orizzontali che verticali; con il chiasso delle chitarre che annulla il senso del mistero; con omelie centrate più su considerazioni di ordine sociologico o politico che sul discernimento della parola di Dio. Di qui l’idea che la liturgia pre-conciliare possa restituire quel clima di mistero che si è perso in celebrazioni concepite etsi Deus non daretur.
A rilievi come questi non sono insensibili i vescovi delle diverse nazioni, anche se preoccupati sia della realizzazione pratica del motu proprio papale sia di alcune convinzioni che lo accompagnano. Non c’è il rischio di confondere l’eccezione con la regola, di scambiare cioè la possibilità concessa ad alcuni gruppi di fedeli con il declassamento della riforma liturgica approvata dal Concilio? Certo la Chiesa non può vivere senza un fecondo richiamo alla tradizione e alla memoria. Ma perché ritenere che solo il gregoriano o la messa di Pio V siano capaci di aprire al senso del mistero e della trascendenza? Ancora, questi orientamenti non esprimono l’idea di una cattolicità elitaria ed eurocentrica, a fronte di sentimenti cattolici in molte aree del mondo che non hanno le stesse basi culturali e spirituali né alcuna familiarità col latino? Infine, come far fronte alle domande della vecchia liturgia in una situazione ecclesiale sempre più carente di vocazioni, in cui i preti (molti dei quali non hanno più una formazione classica) dovrebbero moltiplicare le messe per celebrarle sia nella lingua nazionale sia in quella antica?
Pur apprezzata da non pochi «dotti inquieti» (anche di matrice laica), la messa in latino ci riporta al diverso modo di interpretare il rapporto chiesa-mondo presente nella cattolicità. Ancora una volta emerge la tensione tra l’essere un piccolo gregge nel mondo o mirare a un adattamento che non perda la sostanza della proposta religiosa.

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