mercoledì 14 gennaio 2009

"Nemici"

A Cinecittà, dietro le quinte del programma Amici
Maria «la sanguinaria» regina del minimal nel circo delle passioni
Poca ironia, molta lucidità. «Ho imparato da Simenon».
Tanto narcisimo in mezzo allo psicodramma
di Paolo Di Stefano
Il guaio è questo. Nella prima mezz'ora, forte della tua incorruttibile lucidità critica, ti chiedi dove sei finito e trattieni a fatica la voglia di dartela a gambe. Poi, abbandonata la tua fiera rigidità sartriana, ti rilassi, abbassi il sopracciglio ed esibisci per un'oretta un approccio più sciolto e autoironico, tra il desiderio di capire e la condiscendenza populistica. E alla fine ti accorgi che di mezz'ora in mezz'ora ogni difesa si è a poco a poco sgretolata e le tue macerie ideologiche si sono lasciate inghiottire nel circo, non sei più un intruso ma ne fai già parte e con un ruolo che ti calza a pennello, non sai ancora quale ma ti calza a pennello.
Si fa presto a dire: «Amici»? Tv trash, finzione, volgarità allo stato puro. Provate voi a stare lì, nello studio 19 di Cinecittà, un intero pomeriggio, a pendolare tra la sala riunioni formicolante, il va e vieni dei corridoi, la penombra partecipante del backstage e i fari del set sovreccitato. Provateci e dopo un po' vi convincerete che è tutto vero: ci sono davvero due squadre che si fronteggiano fino allo spasimo, con giovani ballerini veri e cantanti veri, bravi o meno bravi ma in carne e ossa, tutti narcisi, con le loro crestine, i ciuffetti, i piercing, le mèches come Dio comanda, professori che (bene o male) insegnano davvero, cinquecento ragazzi impazziti sugli spalti, anziane signore in lacrime (vere) tra il pubblico. Persino i venti minuti buoni a sentir parlare l'insopportabile vocal-coach Jurman e il foniatra prof. Fussi (è in collegamento telefonico, ma sembrerebbe vero pure lui) delle corde vocali della povera Alessandra, un po' provate dall'uso: se davvero (davvero) le siano così dannosi i pomodori e l'insalata a foglia larga. Venti minuti venti di psico melodramma sanitario. E Maria De Filippi.
Notizia: è vera anche lei, la dea ex machina, vera e nera (jeans, camicia, pulloverino), con la sua camminata da cow-boy, la sua voce baritonale, il ruvido aplomb, la cattiveria appena dissimulata di chi dirige il traffico in tre programmoni mica da ridere, l'acribia nel ricostruire gli antefatti («ora facciamo un passo indietro») e nello spiegare i vari (veri) passaggi tecnici della gara a un pubblico in estasi, pronto a regalare ovazioni all'allevatrice di talenti, non meno che ai talentini in erba. La vera scoperta è che il programma si dovrebbe chiamare, piuttosto, Nemici, perché le ostilità prevalgono nettamente sulle amicizie, persino tra gli insegnanti. Ma ha gioco facile chi sostiene che è proprio qui il bello del talentshow: nessuna finzione, niente ipocrisie, pane al pane. Una commissione litigiosa? Nulla di più fedele qui, sottovetro, a quanto accade fuori, nel mondo. Già, allora il difetto sta all'origine: perché chiamarlo «Amici»? Che amici non vedono l'ora di farti fuori perché mors tua vita mea? Anche questo è vero. O no?
Maria la Sanguinaria (così la chiama Dagospia) sorride se proprio non può farne a meno, ammicca il necessario. Il resto sono gesti trattenuti, parchi riassunti, didascalie che pronuncia seduta su una sedia thonet alla destra del tavolone su cui troneggiano i commissari, la barba ottocentesca del maestro Vessicchio, accanto alla severità iperprofessionale di Alessandra Celentano che non ammette sconti di benevolenza per candidati ballerini somaticamente non proprio baciati dalla Natura: «Io miro alla qualità e alla totalità». E che su Daniela, visibilmente sovrappeso, commenta: «Non l'avrei neanche fatta entrare, ha problemi fisici enormi». Senza pietà. Ma la vera Sanguinaria, lo sa anche l'ultimo dei macchinisti, è un'altra. Più autorevole di tutti i professori messi insieme. Il suo sforzo consiste nel non far pesare la propria centralità: via via madre-matrigna («Che c'è, Alessandra?», «Qual è la tua ansia, Martina?»), confidente, bacchettatrice sadica e dispensatrice di carezze e di fama, eminenza nera (vera), direttore scolastico, burattinaia, supermanager galattico di un'azienda, «Fascino», che produce ormai non solo programmi ma dischi, musical, concerti, teatro, libri. Produce anche ciò che sembra nascere spontaneo, come le adunate pazzesche che in aprile hanno chiuso la serie numero 7 in piazza del Popolo a Roma e in piazza dei Centomila a Cagliari.
Tutto gira intorno a lei che raramente raggiunge il centro della scena, anzi per lo più resta lì sulla sua sedia, piegata in avanti, i gomiti sulle ginocchia, il microfono tenuto quasi controvoglia tra le mani come se qualcuno glielo avesse imposto lì per lì. Ha scelto le tinte sottotono perché, dice, «odio il protagonismo del conduttore vecchia maniera, preferisco osservare e cercare di capire». I maestri di cerimonie televisivi sono un ricordo remoto: nessun birignao, nessun proclama preliminare. È l'anti- Baudo e l'anti-Carrà. Giusto un filo di rossetto prima di entrare. Modelli? Neanche tanto illustri: «La Sampò e anche la Raffai». Tutt'al più si passa una mano tra i capelli, unico tic che sfugge a un autocontrollo da wonder woman. «Eppure», racconta dietro le quinte, «quando molti anni fa mi hanno chiesto di sostituire Lella Costa come conduttrice di "Amici", ho passato mesi con l'incubo di andare in onda: provavo e riprovavo, facevo riassunti di 2-3-5 minuti da Simenon, mi esercitavo intervistando chiunque, registravo e mi riascoltavo di continuo. La paura era l'ingresso in scena, il saluto, il sorriso iniziale per catturare lo spettatore».
Oggi non si direbbe. Le dicono che tra cinque secondi dovrà andare sul set e ancora trattiene l'ennesima sigaretta tra le dita senza scomporsi. Ha fatto studi di giurisprudenza e si vede nella preoccupazione di far rispettare un presunto Codice-Amici come fosse il Codice dei Diritti Umani sottoscritto dalle Nazioni Unite, nel dosaggio della parola, nell'arte della postilla, che fa un effetto straniante se metti a fuoco che quei sillogismi («dunque», «se ho capito bene», «è corretto, quel che dico?», «proviamo a capire meglio», «facciamo il punto della situazione») sono al servizio del circo televisivo più approssimativo e sfrenato. Lavora su di sé per antitesi. Lei frena, taglia corto perché gli altri possano scatenarsi, lei agghiaccia perché il resto possa incendiarsi, lei è un manico di scopa perché gli altri possano sculettare liberamente. E quando la platea si sganascia lei tutt'al più concede un sorriso trattenuto, quasi una smorfia. Ironia poca, autoironia ancora meno. Lucidità sì. Non parlatele di Tv pedagogica, la sua mano scivolerà alla colt. Però, il gioco deve essere molto serio, anche perché alla fine non è un gioco per nessuno, né per i vincitori né per i vinti. Tantomeno per Sabina Gregoretti (occhi di ghiaccio, il suo alter ego incontrastato) e per gli altri autori che la mattina dopo corrono a verificare l'audience. Semmai rideranno dopo. E ridono, spesso e volentieri. Davvero. Troppo vero per essere davvero finto.

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